Leggo su TechEconomy: "Nasce a Genova la Silicon Valley italiana" - il tutto ovviamente debitamente virgolettato. Una notizia riportata bene, con tutti i crismi, che però mi ha colpito per questo attaccamento al termine, quello della Silicon Valley, che ormai sembra essere diventato nell'ambito degli innovatori e delle startup un po' quello che "strage" è diventato per i giornalisti sciacalli. La corsa all'apparenza più che alla sostanza, ha svuotato ciò in cui confidavamo riempiendolo di sola fuffa, per certi versi. È così che quando vedo Ericsson ergere la sua nuova sede nel genovese, proclamando la sua centralità, in un prossimo futuro, nel campo dell'innovazione, rimango perplesso.
Ci serve veramente un posto in cui accentrare le nostre idee? "Noi" startupper abbiamo veramente bisogno di un hub fisico e non metafisico attraverso il quale far fluire il nostro business e le nostre capacità di networking? Non penso. Anche perché, a conti fatti, la Silicon Valley è un posto bello grande e con quei kilometri quadrati di spazio, ci sarebbero i presupposti per trasformare, spazialmente parlando, tutta l'Italia intera in una sorta di Silicon Valley. Ma prima del nome, quel nome che rincorriamo e che forse faremmo bene invece a guardare con occhio critico, ci servono persone. Ci servono coloro che sappiano pensare nel modo giusto, e che non abbiano paura di investire. Ci serve una clientela capace di comprendere le capacità del nostro piano d'impresa, e dei servizi che offriamo. Persone. Non luoghi. Non palazzi di vetro, o inutili proclami.
In Italia le cose si possono fare, non mancano gli esempi. Anche nelle università vari bandi permettono di ottenere finanziamenti; magari la strada sarà più difficile. Ma sta agli uomini che popolano il Paese cambiare tutto questo, fare si che trasformare la propria passione in qualche cosa che generi reddito non sia più qualcosa di così arduo, bensì quasi facile, facile come aprire una saracinesca nella Silicon Valley.
Buona l'iniziativa di Microsoft che fa parlare i blogger di tre categorie: il blogger personale, che fotografa gli istanti, il tecnico, che recensisce servizi, app device, e la multimedia worker, che monta video, realizza copertine. Tre categorie che non condividono molto, a parte alcuni strumenti che usano per portare a termine i loro compiti, tra cui c'è Skydrive.
Personalmente sono un aficionado della cloud di Google, che ormai ha portato la mia esperienza utente totalmente ad un altro livello: proprio ieri sera eravamo lì su Google Hangout che giocavamo a Dungeons and Dragons, e nel frattempo condividevamo un documento con tutti gli appunti presi nel corso del gioco, attraverso Google Drive. Certo, a parte questo in realtà c'è molto di cui parlare per quanto riguarda il cloud computing in generale, e saltando a piè pari quelle che possono essere le killer feature di Skydrive nei confronti dei concorrenti, comunque il video è interessante quanto l'esperienza narrata dai tre blogger.
E poi, oh, Stefano è un amichetto mio. Và che bello.
Sicuramente per i veterani leggere pagine e pagine di guide non è un problema, e non lo sarà nemmeno per tanti neofiti di Arch Linux, la distro che da qualche anno mi ha conquistato e continuo a usare su tutte le mie macchine di produzione. tuttavia chi si accosta per la prima volta al microcosmo di questa distro Linux sicuramente può provare un po' di sgomento vedendo un'installazione testuale (e come credete che facessero tutti, dieci anni fa? :P) - e una tastatina al terreno può far bene e dare fiducia a chi non ne ha abbastanza.
Insomma, a parte l'immagine qui sopra (carina vero? Volevo qualcosa che ispirasse paura - e Luca Rossato mi ha decisamente aiutato) GeekBlogTV ha girato uno screencast dell'installazione di Arch Linux utilizzando le opzioni più comuni. Non sarà gran che per mandare via le fobie degli utenti più timorosi, ma sicuramente abbastanza per stimolare chi ha già voglia di cimentarsi in quello che non è, sicuramente, un processo facilissimo e alla portata di tutti. Detto questo, godetevi la guida. Lo so, è girata su Windows, ma prendetevela con loro, non con me; ambasciator non porta pena :D
Torniamo a bomba su uno degli argomenti che mi stanno più a cuore: i progetti open source e le distribuzioni Linux. A quanto pare, dopo la recente approvazione della ricapitalizzazione, Mandriva ha capito quale strategia adottare per difendere il suo progetto dal cannibalismo del mondo imprenditoriale. Sulle pagine (alcune?) del wiki della distro infatti appare una nota del CEO di Mandriva, J.M. Croset, che recita:
Questa pagina - e in generale questo wiki - sarà parte di un trasferimento globale del Mandriva Linux Project alla community, che verrà finalizzato presto. Mandriva SA vuole che il progetto sia gestito dalla community di Mandriva Linux sotto una governance appropriata. Noi (Mandriva SA) contribuiremo al Mandriva Linux Project in futuro e vogliamo vederlo crescere. Non vogliamo commentare queste righe e vogliamo enfatizzare il fatto che questo wiki sia il wiki della community, anche se è ospitato sul dominio mandriva.com.
Grandissimi, non c'è che dire. Ho sempre snobbato un po' Mandriva, ma questa scelta è l'unica sensata e che non mi stupisce: la mossa di un'azienda che, adattandosi ai nuovi paradigmi, trasferisce responsabilità e parte rilevante dell'amministrazione di un proprio prodotto e progetto direttamente alla community, pur mantenendola ancorata alla compagnia.
In questo modo Mandriva diverrà qualcosa di simile a Fedora, infatti pur mantenendo il suo connotato di distribuzione tipicamente company-made, sarà invulnerabile dal punto di vista del funding e della governance: di questo da ora in poi (una volta ultimato il trasferimento delle cariche) sarà responsabile solo e soltanto la community. A questo punto Mandriva può felicemente fallire :D - Scherzi a parte, probabilmente l'azienda riuscirà a rimanere in piedi; resta da vedere quanto questa giostra economica continuerà. In ogni caso sono felice che la distro e il suo sviluppo siano stati svincolati.
Con un'interfaccia di rete e un sistema operativo configurati in maniera appropriata,un'applicazione non sa - e non ha bisogno di sapere - la logistica di quello che è conosciuto come layer fisico.</p>
Probabilmente questa è la frase che più di tutte ha reso la mia giornata di oggi degna di essere vissuta. Essenzialmente, trovo che il mio viaggio attraverso i tre anni di Ingegneria Informatica possa essere riassunto con questa frase, dato che mano a mano ho maturato la stessa consapevolezza durante la triennale. Sono le parole di R. Stuart Geiger, laureando alla Berkeley's School of Information, che ha realizzato un'implementazione di IP utilizzando come mezzo, udite udite, degli xilofoni.
Il detto IP over Xylophone Players impiega circa 15 minuti per trasferire un pacchetto, ma è senza dubbio uno degli hack più interessanti di cui abbia mai sentito parlare; così interessante, che molto probabilmente con qualche competenza in più tenterei di riprodurla a casa mia scrivendomi un adeguato driver. Geiger mi ha stupito perchè oltre le basi cognite di IP, ha replicato tutti i sette livelli della pila OSI, e anche se dice di non sapere quanto sia modulare l'implementazione e affidabile lo stack, sono sicuro che il suo sia un lavoro invidiabile.
Per chi volesse leggerlo, c'è a disposizione l'interessantissimo paper su IPoXP, direttamente edito dal giovane ricercatore, che io personalmente mi spulcerò una di queste sere. Congratulazioni Stuart, grandissimo hack ;)