Alessio Biancalana Grab The Blaster di Alessio Biancalana

Giappone: il mio (gigantesco) diario di viaggio al gusto di korokke

Ho provato un sacco di volte a iniziare questo post, ma mi rendo sempre conto di due cose in particolare. La prima è che il nostro viaggio in Giappone è stato talmente incredibile e gigante che non so da dove iniziare a raccontarlo; la seconda, invece, è che scriverne un resoconto è psicologicamente devastante per me perché significa fare pace col mio cervello relativamente al fatto che questo viaggio è terminato.

E nonostante io sia particolarmente avverso all’uscire di casa in generale, l’ultima cosa che avrei voluto mentre ero lì sarebbe stata la fine di questo viaggio meraviglioso.

Dato che non riesco nemmeno a pensare - figuriamoci a raccontare - tutto questo nella sua interezza, ho deciso che riserverò la prima parte di questo post a un diario legato ai luoghi del percorso, mentre più “giù” potrete leggere riflessioni di più ampio respiro sul Giappone, sul popolo giapponese e su questa società a suo modo aliena, piena di contraddizioni e (dal mio punto di vista) fantastica.

Tokyo

Partiamo innanzi tutto col dire che sicuramente una delle spese migliori, secondo me, per recarsi in Giappone, è quella di un volo diretto. Sono una persona moderatamente ansiosa con gli scali, specialmente in aeroporti che non conosco, quindi dopo le nostre belle dodici (?) ore di volo filate è stato un piacere rilassarsi e farsi guidare da Yuki, l’assistente che l’agenzia viaggi ci aveva fatto assegnare per facilitare il primo check-in e il trasporto dall’aeroporto all’hotel.

C’è stato un momento di stupore da parte di Yuki-san nello scoprire che in realtà non avevamo tantissimo bisogno di essere guidati1, vuoi per l’età, vuoi per la flessibilità, vuoi per il fatto che avevamo studiato un minimissimo di giapponese. Quindi, in realtà, abbiamo sfruttato la sua piacevolissima compagnia per praticare quel poco che sapevamo di giapponese più che per ricevere istruzioni. Un inizio col botto :-D

Appena arrivati in hotel in zona Shinjuku, chiaramente ci siamo fatti un giro “dell’isolato”, andando a guardare le zone intorno. Prima tappa immediatamente al palazzo del governo metropolitano di Tokyo, da cui si gode una vista spettacolare sulla skyline di quella che è diventata piuttosto in fretta la mia capitale preferita del mondo.

Tokyo skyline

Per cena non ci siamo fatti mancare niente: dopo uno spettacolare giro per Shinjuku, come gli americani che vengono a Roma e vanno a mangiare la carbonara davanti al Pantheon ci siamo fatti un bel bagno di folla nella risicatissima Omoide Yokocho in cui devo dire di aver mangiato uno dei migliori ramen di tutto il viaggio (per la classifica definitiva dovete aspettare!). Omoide Yokocho è senza dubbio una località molto turistica e se sei un “newbie” di Tokyo a Shinjuku è veramente facile non solo cascarci dentro ma anche rimanerne assolutamente affascinati: rispetto agli edifici che circondano la via è sicuramente un ambiente molto esotico che colpisce lo sguardo e la pancia in molteplici modi, dalle lanterne agli odori paradisiaci per chi ama il cibo asiatico. Nonostante il confezionamento piuttosto turistico del luogo, comunque la qualità del cibo è altissima e proprio per questo motivo non solo ci siamo stati la prima sera, ma ci siamo anche tornati per qualche spiedino fuori dal comune. Per concludere questa piccola digressione su questa altrettanto piccola (ma molto celebre) via, i prezzi sono comunque modici. Apprezzo sempre quando i negozianti non se ne approfittano. Consigliatissima.

Bonus points: Godzilla Street a Kabukichō, secondo me imperdibile perché c’è proprio la capoccia di Godzilla (quella old-style) sopra il cinema della Toho. In generale le strade intorno a Kabukichō sono un esempio perfetto dei colori e del “layout” che andremo a trovare nel resto del viaggio. Perdetevi!

Per il secondo giorno abbiamo scelto di perderci un po’ a Ginza, pranzando in un ristorante molto buono dove la specialità erano i temaki, scoprendo contestualmente che il temaki a forma di cono è una forzatura: in realtà il temaki è semplicemente una foglia che “rolliamo” noi con dentro il riso e il ripieno.

Dopodiché, un po’ di Shibuya a gradire: giusto il tempo di toccare la zampa della statua di Hachiko sotto la pioggia, per poi fiondarsi dritti dentro un Donki. Don Quijote è questo incrocio tra Lidl e H&M, per usare riferimenti noti a noi occidentali, in cui è possibile trovare… beh, facile a dirsi: qualsiasi cosa. Vuoi da mangiare? Se non ti va di entrare in un konbini, al Donki trovi qualsiasi cosa tu stia cercando. Ti serve un cambio di vestiti? Donki. Action figure? Donki. Souvenir? Donki. Ma… Donki.

Rimbecilliti dall’esperienza del nostro primo Donki, è un momento perfetto per tornare in zona Shinjuku e ributtarsi in Omoide Yokocho per provare, al posto del ramen della sera prima, gli ottimi spiedini che moltissimi dei locali lì intorno propongono. E che ve lo dico a fare: sbav. Dice ma hai fatto qualcosa oltre mangiare in Giappone? Mah ragazzi, no.

Scherzi a parte, Agnese dopo cena mi ha portato a Golden Gai per bere qualcosa in uno dei minuscoli bar che caratterizzano la zona. In particolare ne ha individuato uno a tema metal che mi ha fatto impazzire: il proprietario mi ha addirittura detto di aver fatto esibire una band metal nel locale una volta. Chiaramente gli spettatori stavano fuori, dato quanto è minuscolo il posto :-D

Ci siamo bevuti un paio di birre guardando un film splatter e parlando di musica col barman che purtroppo parlava un inglese troppo buono per dare a me la possibilità di sfoggiare il mio terribile giapponese. Ma non mi sono dato per vinto dato che mancava un sacco di tempo, e so molto bene che non c’è sconfitta nel cuore di chi lotta. Sarei riuscito a sostenere un mozzico di conversazione, a tutti i costi!

Il giorno dopo, fatta la necessaria colazione pantagruelica che mi contraddistingue specialmente quando sono in viaggio, avendo preso le misure con la città ci siamo dedicati a una sana sessione di shopping da Uniqlo dato che diluviava. Penso sia stata la volta in vita mia in cui ho speso di più dentro un negozio, dico sul serio; non tanto per i prezzi, straordinariamente bassi, quanto per la compulsività con cui mettevamo roba nel carrello. Mi sono, senza esagerare, rifatto il guardaroba: penso che indosserò magliette a tema anime e Monster Hunter fino al 2077.

Sacerdoti che fanno delle cose al santuario Meiji-Jingu

Appena ha spiovuto ci siamo dedicati a recuperare terreno: abbiamo deciso di iniziare dal santuario Meiji-Jingu, dove ho scattato delle bellissime foto, per poi virare verso Ueno. Mentre nel santuario abbiamo seguito più o meno il percorso standard, a Ueno abbiamo infilato il telefono in tasca passando tutto il pomeriggio tra il mercatino che era allestito, dove abbiamo visto i nostri primi kimono e haori usati a prezzi ottimi, per poi terminare con uno spuntino tardo-pomeridiano presso le bancarelle che erano allestite, almeno così abbiamo capito, per celebrare la fioritura dei ciliegi. In questo piccolo festival di street food Agnese ha perso la testa per gli spiedini di capesante a un prezzo ridicolo per gli standard italiani (tipo, tre euro a spiedino? Ricordo male?). Io dal canto mio ho semplicemente scoperto che i giapponesi mangiano, tra le altre cose, le patate arrosto intere, spaccate, e riempite con una caterva di burro. E quando dico caterva, intendo proprio che c’era un barattolone con una coltellone con cui potevi prendere burro a volontà. Per strada.

Ueno

Beh signori miei, se questa non è la dimostrazione che ci troviamo di fronte a una civiltà superiore, io non so veramente cosa dire.

Siccome il patatone col burro non era abbastanza e nulla è mai davvero abbastanza quando sei in vacanza (scusate il rap) dopo un pit stop in un owl café dove abbiamo dovuto superare lo shock di vedere dei gufi vivi a un palmo dal naso ho portato Agnese al suo primo yakiniku, ovvero il barbecue giapponese. Una griglia al centro del tavolo fa da protagonista, e noi abbiamo due compiti fondamentali: mettere la carne (insieme a delle opzionali verdure) sul barbecue facendola cuocere a puntino, e mangiarla. Che ve lo dico a fare. Meravigliosa.

Per il nostro penultimo giorno (per ora) a Tokyo, invece, ci siamo dedicati ai giardini imperiali, alla loro variegatissima vegetazione e alle loro carpe ciccionissime e multicolori. Mi dovete perdonare il body shaming delle carpe dei giardini imperiali, ma raramente in vita mia ho visto pesci vivi tanto grossi. È uno dei modi in cui il Giappone sa stupirti, sicuramente: vedere una sequela di animali così grandi e dalle movenze così sinuose e leggiadre è stupendo e ti dà, come tanti altri piccoli tratti, la sensazione di trovarti su un pianeta alieno.

Un ramen d’ordinanza dopo (che per onestà intellettuale va detto che non era nemmeno un gran ché, infatti non vi nominerò nemmeno il posto infame che me l’ha propinato) ci siamo appropinquati verso un enorme negozio di cancelleria in cui Agnese ha voluto fare compere, anche se sarebbe più corretto dire che data la grandezza del negozio e la varità della mercanzia lei che ha la passione di penne matite e tutto quello che ci gira intorno l’ha visitato come fosse un tempio. È stato poi il turno di Nakano Broadway, uno tra i primi consigli onestamente svolta-viaggio di Nicole, di cui vi linko la newsletter a tema Giappone “and co.” perché sì. Nakano Broadway è questo posto meraviglioso in cui più stai più staresti, perché comincia a sedurti con la tecnologia a basso costo, ti cattura con una sfilza di negozi di action figure che hanno anche cose che qui ci sogneremmo, e ti dà il colpo di grazia con il piano inferiore pieno di kimono e haori di seconda mano. Uno dice ok, ma tutto questo colpisce il mio portafoglio con la stessa veemenza con cui colpisce i miei occhi? Ed è qui che vado a dirvi, cari lettori, che invece è un fenomeno quasi inversamente proporzionale.

Hai visto un’action figure che ti fa schifo? Di solito il prezzo è abbastanza alto. Hai visto un haori che è proprio il tuo? Cinquemila yen, il corrispettivo di una trentina di euro. È così che abbiamo iniziato a dare un senso alle due valigie completamente vuote che abbiamo portato apposta dall’Italia.

Dopo una cena in camera con un quantitativo assolutamente illegale di schifezze comprate al konbini, ci siamo preparati, chiudendo gli occhi, al giorno successivo in cui avremmo salutato Tokyo per il momento per dirigerci a Takayama.

Takayama

Quando si fa un viaggio del genere, (sospetto) specie in Giappone, il tempo è tiranno, e io reagisco molto male al tempo che diventa tiranno della tua vacanza. Purtroppo è qualcosa che in un viaggio simile va tenuto da conto, ed è questo il motivo per cui praticamente senza riposarci un attimo appena siamo arrivati a Takayama siamo subito andati a visitare il Takayama Jinya, un edificio che anticamente era la residenza dello shogun di zona, per poi diventare un ufficio della prefettura. Oltre a visitare l’edificio antico è possibile osservare all’interno una collezione di oggetti, armature e chi più ne ha più ne metta relativi al periodo in cui il posto era presidiato da ben venticinque samurai.

In realtà però per me la cosa più bella del Takayama Jinya è la visuale che è possibile godere da dentro la casa verso il giardino. Non è niente di speciale in sé, ma è bellissimo godersi uno scorcio di un giardino giapponese da dentro una casa tradizionale, sedendosi e guardandosi semplicemente intorno.

Ed è questa la principale sensazione che ho avuto per tutta la lunghezza della nostra visita a Takayama, piena di posti in cui semplicemente sedersi, respirare e guardarsi intorno. L’aria freddina del paesello ci ha fatto sempre compagnia mentre lo esploravamo in lungo e in largo, rivelando a ogni occhiata un nuovo angolo di piccola meraviglia verso cui sorridere.

Quello che ho trovato a Takayama è stata una piccola perla di ordinaria vita giapponese mischiata con stupendi elementi della cultura locale, dalla carne Hida (che nulla ha da invidiare a quella di Kobe) alla miriade di piccoli cimiteri che si possono trovare sul cammino di Higashiyama, un sentiero che praticamente circonda tutto il villaggio.

In particolare, un cimitero ha catturato la nostra attenzione: tra una scala e un parcheggio per le automobili abbiamo notato che cominciavano a spuntare delle lapidi, via via sempre più frequenti. Seguendole, abbiamo visto che il percorso si inoltrava negli alberi, e il cimitero proseguiva in questo bosco dove la luce del sole filtrava tra le foglie. Quello che abbiamo trovato potrebbe anche essere descritto a parole, ma non penso che potrei mai arrivare a toccare con il linguaggio l’emozione che ci ha regalato quel posto.

Beccatevi la foto:

Uno dei cimiteri di Takayama

Il mercato mattutino ovviamente ci ha sottratto più di qualche migliaio di yen, e tra i sarubobo e il sushi con la carne di Hida ci siamo affezionati tantissimo a questa cittadina piccola piccola che ci ha veramente dato una casa a un oceano di distanza. Takayama si sviluppa intorno a un fiume, dove tra l’altro abbiamo avuto un assaggio di un aspetto particolare della vacanza, ovvero la varietà faunistica che è possibile osservare lungo questi corsi d’acqua. Ci siamo così goduti una pigra sessione di caccia di un airone col sole che calava.

Culinariamente parlando anche qui abbiamo provato delle emozioni forti: il nostro primo curry giapponese ci ha fatto spalancare gli occhi, il cuore e lo stomaco, talmente tanto che ne abbiamo ordinato un altro piatto a testa dopo il primo per essere sicuri. Rotolando rotolando siamo riusciti ad arrivare in hotel, riposandoci per il giorno dopo, dove invece culinariamente abbiamo affrontato due prove molto importanti: la prima è stata semplicemente riuscire a trovare un ristorante aperto dopo le sei di sera, mentre la seconda è stata fare anche una cernita dei posti che avevamo identificato.

Pancia mia fatti capanna: ancora una volta un bel ramen, condito con una dose ignominiosa di cipollotto. Se ci ripenso sto ancora ruttando2, ma mamma mia quanto era buono. Visto l’orario estremamente tardo per i locali, ci siamo anche goduti l’esperienza della cena tarda nel locale con pochi avventori e disparati. I due ragazzi dietro il bancone della cucina a vista andavano come treni preparando già la linea per il giorno dopo, la birra che ci hanno servito non era nemmeno così fredda, eppure non mi ricordo di aver mangiato un ramen più buono.

Per tutti questi che ho elencato e per altri motivi che sono “troppo lunghi per il bordo di questa pagina”, Takayama è un posto in cui non vedo l’ora di tornare. La dico grossa: il posto, di tutto il viaggio, in cui non vedo più l’ora di tornare.

Shirakawa-go

Dopo aver imparato le vie di Takayama a memoria nei due giorni che siamo stati ospiti della cittadina, il piazzale degli autobus davanti l’albergo ha visto la nostra dipartita; con un autobus siamo arrivati a Shirakawa-go, dove nonostante un primo momento di lotta per capire dove depositare i bagagli per il tempo della nostra permanenza ci siamo rifatti gli occhi con la bellezza delle case dai tetti di paglia che sono ormai iconiche di questo piccolo villaggio.

Shirakawa-go

Non penso di dovervi dire altro: tutto quello che può dirvi una guida “formale” lo potete trovare su Wikipedia.

Quello che invece mi sento di consigliare a chi va è di inerpicarsi a costo di farsi una sudata su per il sentiero che parte da Shirakawa-go e finisce su una gigantesca collina in alto, perché da lì è possibile godere di una vista, devo dire, mozzafiato. Oltre a questo, siccome il consiglio culinario non può mai mancare, se vedete qualcuno che vende degli spiedini con la carne di Hida ovviamente fermatevi a prenderne un po’. Io sinceramente ad oggi mi pento di non averne mangiata a ogni piè sospinto.

Dopo aver visitato il tempio che si trova nel villaggio, e dopo esserci beati ancora un po’ alla vista di questa monumentale conservazione di un villaggio storico giapponese, abbiamo ripreso le nostre carabattole (nello specifico i trolley) e abbiamo preso l’autobus per Kanazawa.

Kanazawa

Anche qui, il tempo di arrivare in albergo e posare le carabattole di cui sopra per poi uscire di nuovo, con mia considerevole sofferenza. Sofferenza che però è stata alleviata abbastanza in fretta dalla vista del santuario Oyama. Magnifico, anche perché è possibile osservare una vetrata fatta in realtà ricalcando lo stile dei mosaici occidentali. Da lì si può proseguire facendo tutta una passeggiata fino ai giardini Kenrokuen e al castello di Kanazawa, che dato l’orario tardo non abbiamo fatto in tempo a visitare nello stesso giorno.

Ovviamente abbiamo cenato, perché che fai, vai a letto senza cena? E altrettanto ovviamente abbiamo cominciato a prendere porte in faccia dai locali perché non avevamo prenotato. Ci avevano avvisato di prenotare le cene su Tabelog, ma non avevamo dato particolarmente peso a questo aspetto finché non ci siamo trovati con le chiappe a terra. Fortunatamente, alla fine in un izakaya buonissimo, Itaru Honten, lo staff si è impietosito così tanto da lasciarci attendere per un po’ fuori.

E devo dire, ragazzi che cena. Abbiamo praticamente ordinato tutto il menu, spendendo ovviamente pochissimo come da standard Giapponesi a cui eravamo ormai abituati ma di cui non finivamo mai di stupirci. Tra pezzi di sashimi di una bontà leggendaria, onigiri ricoperti di sesamo e un sacco di pollo fritto speziato, mi sono veramente fatto una panza così, anche se il posto è rinomato specialmente per le sue portate di pesce, che Agnese ha potuto esperire sicuramente più di me.

Il giorno dopo abbiamo fatto un giro clamoroso: la mattina abbiamo iniziato con il distretto dei samurai, in cui è possibile perdersi nelle viette che un tempo erano calcate dagli antichi guerrieri. Nonostante tanti tocchi moderni il posto non è stato minimamente rovinato ed è possibile respirare ancora un po’ di quell’aria, emozionandosi di fronte all’estetica più giapponese che mai delle case e dei muretti che costeggiano le strade. La cosa che mi ha onestamente stupito di più sono stati i cartelli che invitavano (giustamente) a limitarsi e fare attenzione con le foto perché la gente lì ci abita.

Agnese nel quartiere dei samurai

In seconda battuta, siamo riusciti a visitare il Ninja-dera, un tempio caratterizzato da un elevatissimo numero di trucchetti e trappole per scoraggiare e nel caso uccidere in maniera piuttosto cruenta chiunque decidesse di attaccarlo. Devo dire che la visita è stata molto divertente, innanzi tutto perché comunque si rimane sempre un po’ sul chi vive dato che è obbligatorio rimanere dove si può vedere la guida, altrimenti si rischia di non riuscire a tornare indietro. A parte questo che già contribuiva ad aumentare la suspence, la guida ci ha mostrato in maniera estremamente meticolosa ogni nascondiglio, ogni trucco, ogni illusione e ogni trappola. Porte che non sembravano porte, buche che non sembravano buche, ma soprattutto una cassetta delle offerte al livello del terreno che tolta di mezzo rivelava una profonda fessura nel pavimento in cui far cadere i nemici su mille lame affilate.

Completata la visita di questo tempio uscito direttamente da un episodio di Naruto, abbiamo di nuovo ripreso le nostre cose e ci siamo incamminati verso la stazione, dove abbiamo preso il nostro bellissimo Shinkansen per approdare a…

Kyoto

Kyoto a me fa lo stesso effetto di Milano. Un posto che “bello ma non ci vivrei”, e nonostante questo ogni volta ci trovo cose stupende. Nonostante il mio sentimento di base sia questo, devo dire che Kyoto ce l’ha messa davvero tutta per entrare nelle mie grazie, a partire dal fatto che finalmente arrivati con il treno alla stazione centrale ho potuto trovare delle biglietterie automatiche presso cui acquistare una IC card (marca ICOCA! Segui l’ornitorinco!) con cui rimpiazzare la mia Welcome Suica da turista. Non so perché, ma devo dire che questa cosa iniziava a starmi a cuore da quando mi sono documentato su come funziona tutto il sistema di pagamenti con IC in Giappone (ve ne parlerò in dettaglio più giù).

E, subito dopo avermi dato l’opportunità di avere la mia prima vera IC card “da locale”, Kyoto ci ha accolti come una mamma: ossia con del cibo. L’albergo infatti si trovava letteralmente sopra a una galleria sotterranea strutturata come un centro commerciale, con ben due aree cibo zeppe di opportunità per le nostre mascelle. Appena arrivati così abbiamo subito deciso di metterci alla prova, una volta lasciate le nostre cose (e recuperati i valigioni che avevamo spedito da Tokyo), con una bellissima e ciccionissima omurice.

Le omurice sono queste enormi omelette ripiene di riso con a richiesta anche degli extra mischiati al ripieno. Non vorrete mica perdervi l’opportunità di avere del formaggio extra mischiato al riso della vostra omurice? :-D

Generalmente i sughi con cui vengono guarnite sono molto saporiti, e a volte è possibile trovare nel menu la possibilità di avere anche proteine come dell’ottima carne “a contorno”. Insomma, una cosetta leggera.

Il giorno dopo di buona lena abbiamo iniziato con lo splendido castello Nijo, in cui è possibile sentire i caratteristici pavimenti “usignolo”. Non è chiaro se il modo in cui sono fatti sia intenzionale, ma la leggenda narra che fosse possibile udire visitatori non autorizzati o malintenzionati, come dei ninja nemici, solo grazie al suono di questi pannelli di legno, che effettivamente fanno un macello del diavolo se si è in tanti e ci si cammina sopra tutto il tempo.

Ne sapevano veramente un sacco ‘sti giapponesi :-0

Ma bando agli indugi, siccome eravamo digiuni da troppi minuti, si era fatta una certa e fidandomi di recensioni a caso di Google Maps ci ho fatti cadere dentro Nishiki Warai, un posto a Kyoto dove fanno degli okonomiyaki clamorosi. Ed era per noi il tempo di inaugurare la stagione, appunto, degli okonomiyaki!

Dopo pranzo, con la panza pienissima, ci siamo diretti a Gion perdendoci per le viuzze minuscole della zona, quasi dimenticando di consultare il navigatore tra un fiumiciattolo e un albero di ciliegio in fiore. A proposito dei ciliegi in fiore: uno dice ma vale la pena andare per l’Hanami? Sì. Costa un rene, ma vale assolutamente la pena.

Per chiudere la giornata, prima di uno spettacolare ramen da Ippudo, una bella visita al Kiyomizu-dera. Devo dire che la vista dal sentiero per andare verso l’uscita, da cui si può godere una splendida prospettiva sull’intero santuario, è semplicemente bellissima e appagante per gli occhi e per l’anima.

La mattina seguente abbiamo iniziato subito con un antipasto, il Kinkaku-ji, ovvero il padiglione d’oro: in realtà a parte il fatto che è tutto dorato però non è che ci sia tutto questo gran ché da guardare, per cui siamo stati relativamente poco tempo, anche perché devo dire che nei posti più “mainstream” abbiamo sempre trovato una bella folla gremita che ci ha sempre scoraggiato dal fermarci quel momento in più. Una volta terminato con questo antipasto per gli occhi, è stato dunque il momento di un altro (purtroppo) bagno di folla in quel di Arashiyama, la celeberrima foresta di bambù, di cui financo nemmeno la frotta immane in cui ci siamo imbattuti lì è stata in grado di diminuire la bellezza e il divertimento.

Mi trovo in difficoltà a riassumere a parole le sensazioni che camminare tra i giganteschi bambù è in grado di restituire: quello che mi viene in mente pensandoci è questa sensazione di estremo rispetto per una natura evidentemente molto più anziana di noi, talmente soverchiante da lasciare senza fiato. Uno degli aspetti più affascinanti di Arashiyama è vedere la luce filtrare attraverso le fronde altissime di questi bambù dalla taglia mastodontica, a cui noi non siamo abituati, così come non siamo abituati al rumore che producono delle canne di queste dimensioni battendo anche solo leggermente tra loro stesse. Quando dico che il Giappone è una terra aliena, quanto di più vicino possa esserci a un altro pianeta, questo è uno degli aspetti a cui mi riferisco.

Arashiyama e i suoi bambù

Oggettivamente meno emozionante di sicuro, ma per me decisamente di più, è stato il posto dove siamo andati dopo Arashiyama3: abbiamo deciso di andare a caccia di ancora un’altra mascotte degli omikuji, recandoci al santuario di Hirano, famoso per la sua festa dell’hanami. E siamo stati fortunati, perché non solo lo abbiamo beccato in piena festività, ma ci siamo potuti godere il suo giardino che durante la Sakura Matsuri ospita ben più di quattrocento esemplari di ciliegio per un totale di una sessantina di specie, tutti in fiore contemporaneamente. È uno spettacolo da non perdere, e senza vergogna ammetto di essermi commosso passeggiando per questo enorme prato fino ad arrivare al santuario vero e proprio. È un posto che, lo dico onestamente, anche se sei ateo ti fa venire voglia di pregare.

Il sottoscritto cammina tra i ciliegi di Hirano

Un elemento particolarmente da brividi sono stati gli omikuji che abbiamo preso per noi e per persone molto vicine, che hanno vaticinato degli eventi assolutamente precisi che si sono verificati dopo pochissimo. Oltre a questo, punti bonus per il santuario: la mascotte è un carinissimo scoiattolo che regge un fiore di ciliegio. Che fai, te ne privi?

Il giorno successivo è stato il nostro ultimo a Kyoto, e abbiamo deciso di dedicare la mattina a Nara, su cui mi permetto un’opinione controversa: Nara non è niente di che. O meglio, se avete incluso nel vostro itinerario Miyajima secondo me è sovrabbondante, perché i cervi si trovano anche lì, e a quel punto l’unico motivo per andare a Nara diventa quello di vedere tutti i santuari di cui il parco è disseminato. Effettivamente quella parte è molto bella, ma seguendo il percorso che abbiamo fatto noi questa volta (e che è quello che più o meno ogni agenzia tenderà a proporvi) avrete la testa e gli occhi talmente pieni di meraviglie che a quel punto anche una statua di un Buddha megalitico vi farà contemporaneamente rimanere stupefatti e indifferenti. È una sensazione strana. Vi auguro di provarla.

Quello che invece mi ha lasciato (e penso di poter parlare al plurale) stupefatti davvero è stata la parentesi pomeridiana che si è estesa fino a tardi: seguendo il consiglio di Diego siamo andati al Fushimi Inari e abbiamo atteso che fosse sera prima di iniziare la nostra passeggiata. L’attesa è stata quasi indolore, perché nel frattempo abbiamo deciso di visitare il santuario Araki, che si trova sul fianco della montagna dove sta lo stesso Fushimi Inari, e presso il quale è possibile ottenere innanzi tutto una bellissima mascotte degli omikuji a forma di kitsune. È un santuario secondario dove non arriva molta gente, ed è possibile godersi un po’ di calma prima di buttarsi nell’inevitabile ressa, anche a tarda ora, del Fushimi Inari che invece è sempre strapopolato e strapopolare. Lì intorno, in ogni caso, ci sono tantissime tombe da fotografare.

Agnese tra le tombe del Fushimi Inari

Ho giustappunto una storia di fantasmi.

Cercando il santuario Araki, perché non avevamo minimamente capito dove fosse e Google Maps ci diceva che eravamo sul posto, mi sono inerpicato per un sentiero dove giustappunto c’era anche una bellissima sbarra per intimare a chiunque di non proseguire. Io però che sono un idiota (soprattutto secondo i canoni giapponesi, credo), ho proseguito e sono arrivato a una scalinata, la quale mi ha portato ad un tempietto dove facevano la guardia due enormi statue di due volpi.

Dev’essere stato il silenzio, l’atmosfera piuttosto mistica e lugubre, il fatto che non ci fosse nessuno, ma quelle due grandi volpi mi hanno fatto un effetto incredibile: mi sono girato e sono tornato indietro sui miei passi piuttosto velocemente, intimorito.

L’atmosfera di cui sopra, una volta entrati in possesso della carinissima statuetta del kitsune del vero santuario Araki, ha contribuito a farmi godere ancora di più la a questo punto meritata camminata tra le centinaia di torii del percorso principale del Fushimi Inari, a cui ci siamo dedicati subito dopo. Le lanterne proiettavano la loro luce sul pavimento, creando giochi di ombre con i portali che attraversavamo via via risalendo il monte. Siamo stati addirittura così fortunati da beccare alcuni attimi di silenzio, lasciando passare il grosso della folla e rimanendo a goderci la vista da alcuni punti in particolare.

Un gatto tra le tombe

Come sempre, è difficilissimo riportare in parole le sensazioni che si provano stando lì, ma ripensandoci mi va la testa sempre allo stesso pensiero: la commozione e l’eccitazione che mi hanno preso quando a pochi giorni dalla partenza da Roma verso Tokyo ho realizzato che stava per succedere ancora, che stavo tornando in quel posto magnifico. In questi giorni stiamo facendo il rewatch di Lost d’ordinanza, e arrivando al famoso flash forward (il primo tra tutti) in cui Jack urla a Kate “we have to back!”, devo ammettere di aver per la prima volta capito fino in fondo la disperazione e il significato di quella frase. Quanto sia possibile che un viaggio segni una persona, quanto sia possibile che incontrare persone che hanno una visione del mondo completamente diversa ti possa aprire la testa e arricchire la tua, di visione. Quanto sia possibile emozionarsi camminando di notte, con la visibilità ridotta quasi a zero se non fosse per qualche sparuta luce in giro, non avendo idea di dove mettere i piedi ma essendo tranquilli perché è possibile sentire il suono del ruscello che hai accanto.

Kyoto vista dal monte Inari

Hiroshima

Credevo che di Hiroshima non mi sarebbe importato gran ché, devo essere sincero. Più che altro dicevo vabbeh, abbiamo delle tappe importanti di fronte a noi, so quanto adoreremo Miyajima (di cui vi parlerò tra un attimo), quindi tutto sommato che mi aspetto da Hiroshima? Niente.

E invece.

Innanzi tutto Hiroshima ci ha accolti con l’okonomiyaki oggettivamente migliore di tutto il viaggio, che abbiamo mangiato da Nagata-ya, un posto molto famoso in cui nonostante un po’ di coda vi consiglio assolutamente di andare - anche perché io adoro il jalapeño come ingrediente e lì ho trovato un okonomiyaki con il jalapeño. Quindi che ve lo dico a fare? Agnese invece ha preso un okonomiyaki con le capesante che era la fine del mondo, testimonianza diretta.

Questo aspetto godereccio abbiamo notato che era condiviso dai locali, assolutamente intenti nel fare un sacco di picnic sotto i ciliegi in fiore, giocare, ridere, parlare concitatamente tra loro, e si riflette anche nell’accento che abbiamo imparato: le vocali finali vengono trascinate anziché chiuse, segnando la linea di demarcazione tra il resto dei giapponesi, così attenti a ogni regola, e quelli di questa regione, sempre attenti alle regole ma se vogliamo più scanzonati.

Hiroshima e la sua popolazione

Il centro di Hiroshima brulica di vita a tutte le ore, in totale contrapposizione con la tragedia che ha segnato questo magnifico popolo alla fine del secondo conflitto mondiale. Non poteva infatti mancare una visita al “museo della bomba”, dove devo dire che l’impatto è stato clamoroso. Ancora più di qualche ora prima, quando camminavo per le strade del centro e già avevo fatto a questo, mi sono trovato a pensare a che forza hanno i cittadini di Hiroshima, un popolo che ha ricevuto la più grande dimostrazione di forza della storia, eppure oggi è più vivo e a testa alta che mai. Praticamente per tutto il tempo della visita al museo le mie budella non ne hanno voluto sapere di tornare al loro posto: non è sicuramente un posto felice da visitare, ma è molto interessante e devo dire molto formativo. C’erano tante cose che non conoscevo relativamente agli effetti collaterali di quando ti esplode una bomba nucleare sulla testa.

Ancora più toccante dell’esperienza al museo è stato uscire e con ancora le lacrime agli occhi notare una piccola folla assembrata vicino il sito della bomba, unita in una manifestazione per la liberazione della Palestina a cui ci siamo uniti per qualche decina di minuti. È stato particolare riuscire a stare lì, uniti a queste persone che non avevamo mai visto e di cui soprattutto non capivamo una parola, eppure percepirne la vicinanza.

Miyajima

C’è poco da dire su Miyajima che non possa essere riassunto da “è stupenda, andateci e basta”. Prendendo il traghetto da Hiroshima veniamo subito accolti, non appena passati gli arrivi al porto, direttamente da un po’ di cervi esattamente come quelli di Nara, che camminano tranquilli nella piazzetta del paese. Si scopre abbastanza in fretta, non appena ci si inoltra in qualche via per fare una passeggiata, che qui i cervi partecipano direttamente alla vita della popolazione, in maniera molto poco molesta. Per tutto il soggiorno a Miyajima sono una costante che accompagna il visitatore con la sua piacevole presenza, isolata o addirittura in branchi piuttosto folti.

Noi abbiamo alloggiato in un ryokan: vedevamo i cervi passeggiare in giardino, e uscendo dall’albergo ne abbiamo anche trovato un nugolo sotto degli alberi in un prato di fronte a ripararsi dalla pioggia. Rispetto a Nara, dove chiunque si sente in diritto di rompergli le scatole, vederne così tanti esemplari tranquilli a godersi la loro erbetta e l’aria mite è stato molto emozionante.

La destinazione più ovvia a Miyajima è il torii sull’acqua nel santuario di Itsukushima. Sempre pieno di gente, questo torii è affascinante sia perché si trova in mezzo all’oceano, sia perché la sua fruibitilità cambia in base alle maree: in bassa marea il livello dell’acqua si ritira così tanto che è possibile andare fin sotto il portale per ammirarlo in tutta la sua magnificenza, mentre quando il livello dell’acqua è alto l’esperienza è di tutt’altro tipo. Il torii solitario immerso nell’acqua è una visione da un altro mondo, costituendo un esempio reale in tre dimensioni di arte in stile ukiyo-e.

Itsukushima e il suo torii

Dietro il torii si trova invece il resto del santuario di Itsukushima, il quale merita assolutamente una visita: in particolare noi siamo stati più che fortunati perché abbiamo beccato un matrimonio tradizionale. Nemmeno a dirlo, ce lo siamo visto tutto dal momento in cui ce ne siamo accorti, ed è stato magnifico. Un po’ meno magnifico per gli sposi immagino, avendo una cricca di intrusi a guardarli da fuori mentre si sposavano, ma immagino l’avessero messo in conto decidendo di sposarsi in una location così iconica per il Giappone e per il mondo intero. In particolare un momento senza dubbio magico per me è stato l’attimo in cui ho deciso di rubare qualche scatto delle foto di famiglia: la sposa mi ha fissato abbastanza male, mentre lo sposo sembrava piuttosto divertito. D’altronde la vergogna passa, mentre le foto restano!

Quello che invece non è noto ai più e su cui io invece ho un’opinione forte, e il consiglio che sto per elargire (prego) in questo momento: non permettete a nessuno al mondo di dirvi che Miyajima è una gita che si può fare in giornata. Queste persone non sanno di cosa stanno parlando, o non hanno senso estetico, o il più delle volte entrambe le cose.

È possibile scoprire infatti abbastanza in fretta che oltre il santuario di Itsukushima a Miyajima ci sono altre mille e mille cose da fare, che richiederebbero di starci una settimana anche solo per godersi i panorami paradisiaci: in particolare un posto che secondo me vale assolutamente la pena di una visita (e di perderci un pomeriggio intero) è l’acquario di Miyajima. Possiamo vedere lo spettacolo delle foche e dei leoni marini, quello dei pinguini, ma soprattutto osservare una varietà di pesci e fauna marina in generale da lasciare a bocca aperta. I giochi di luce, le vasche dedicate agli animali più grandi, la possibilità di guardare pesci che non vedrete probabilmente più da nessuna parte, sono tutte cose che valgono e soverchiano il prezzo irrisorio del biglietto.

Una volta tornato ho appreso che c’è tutta una camminata per dei santuari nella parte alta dell’isola di cui non conoscevo l’esistenza (Agnese probabilmente sì), e che è una delle ragioni che motivano l’opinione di cui sopra. Ed è anche il motivo per cui la prossima volta che metto piede a Miyajima ci voglio stare almeno tre notti. È un’isola bellissima in grado di cambiare le persone che ne toccano il suolo, e ho imparato che qualcosa da fare nei dintorni dell’albergo si trova sempre, specie a Miyajima.

Abbiamo terminato la nostra giornata con un onsen molto rilassante per poi farci servire una cena tradizionale in camera dallo staff del ryokan. Di solito le cene tradizionali non sono esattamente la mia cosa preferita più che altro perché al contrario della credenza comune per cui la cucina giapponese è prevalentemente di pesce in realtà vengono servite molte verdure e radici bollite o conditi in modi che a me non fanno impazzire. Nonostante questa premessa, devo dire che ho mangiato circa quattro quinti (zerovirgola più, zerovirgola meno) di tutto quello che è stato servito, e non per particolare cortesia verso lo staff ma perché era veramente tutto buonissimo.

Un cervo a Miyajima

Il giorno dopo un’altra guardatina al torii di Itsukushima, poi ci siamo dovuti congedare perché dovevamo andare a prendere il treno per Osaka. Pancia mia fatti capanna (di nuovo)!

Osaka

Nonostante il nostro soggiorno a Osaka sia stato inframmezzato da Koyasan, metterò tutto insieme per poi parlarvi di quell’indimenticabile esperienza che è il monte Koya.

Che dire, Osaka è stata una delle fasi digestive più lunghe della mia vita. Come se non avessimo mangiato abbastanza finora, Osaka si propone al turista proprio come “la capitale del cibo” del Giappone, e ne ha ben donde: c’è un’intera via, Dotonbori, completamente dedicata al cibo, in particolare al cibo da strada, e possiamo trovarci veramente di tutto, dal ramen bar ai takoyaki all’okonomiyaki. Una cosa per cui è particolarmente famosa Dotonbori inoltre sono le insegne, che prendono la forma di vere e proprie sculture sulle facciate degli edifici, tra draghi enormi, ravioloni giganti e megalitici piatti di curry.

È stato proprio qui che abbiamo potuto assaggiare una cosa estremamente calabrese (!): se avete mai preso una brioche col gelato nel sud Italia (cosa che io ricordo principalmente in Calabria, ma ormai ha preso talmente piede che la fanno anche a Roma) andrete fuori di testa nel vedere questo negozietto che spero sia ancora lì nel mezzo di Dotonbori che vi vende il melonpan caldo con il gelato in mezzo. Non solo noi abbiamo preso il nostro calabrogiapponesissimo melonpan con il gelato, ma lo abbiamo preso anche gusto Sakura per non farci mancare niente. E che ti mangi! Era ovviamente buono, non tanto per la qualità degli ingredienti quanto per la tonnellata di burro percepita al primo morso.

Il suddetto melonpan col gelato

Se Dotonbori non vi dovesse bastare, cosa che sicuramente si verificherà più che altro perché il macello di gente che ci si riversa a tutte le ore la rende una location sicuramente pittoresca ma anche a tratti infrequentabile, potete farvi un giro a piedi e arrivare a Okonomimura, che dista relativamente poco, e che saprà sorprendervi: questo parallelepipedo enorme infatti è un edificio molto grande dove si fanno solamente okonomiyaki; e vi sorprenderà sapere che io ci sono arrivato già pieno quindi nonostante le esortazioni di Agnese a compiere l’impresa alla Man VS Food ho riconosciuto che non sono più il ghepardo di una volta e ci siamo così limitati a visitare il posto, che è pazzesco perché ci sono letteralmente solo localetti che fanno okonomiyaki.

Uno dice ma di che ti stupisci? Ci si chiama pure, okonomimura. Ma vi vorrei vedere a voi, amici ascoltatori, a Roma dentro un palazzo a Monti dove ci sono solo micro-ristorantini da dieci posti dove tutti i locali ti fanno solo la carbonara a vista. O carbonara e amatriciana, toh. Questo mette sicuramente a nudo il rapporto che il Giappone ha con le proprie ossessioni e quanto sia non solo socialmente accettata, ma anche a tratti apprezzata e incitata la monomania. D’altronde, riflettendo sempre sulle differenze culturali, mentre in occidente prende piede il T-shaped skill set con il quale frotte di generalisti invadono il mercato del lavoro, il Giappone ha mantenuto salda negli anni una grande professione di fede nel fare “una cosa sola al massimo del livello”, fosse anche una minuzia.

Parlando poi in particolare dell’area di Osaka, loro hanno addirittura una parola in particolare per indicare l’atto di “mangiare fino a scoppiare”, ovvero 食い倒れ / くいだおれ, kuidaore. Nonostante sia sicuramente rimasto più affascinato da altre aree, devo dire che questo aspetto di Hiroshima e Osaka mi ha particolarmente scaldato il cuore.

Di Osaka abbiamo più che altro esperito questo aspetto culinario anche perché ci siamo un po’ consciamente, un po’ inconsciamente persi in un centro commerciale molto particolare: se cercate infatti Shinsaibashi Parco, questo bellissimo “doppio” centro commerciale (la sua “controparte” a specchio si chiama Daimaru, ed è nello stesso megalitico edificio) contiene qualsiasi cosa in primis un essere umano possa desiderare, in secundis specialmente un nerdone come noi. L’esca che ci ha attirati in questo luogo di perdizione è stata infatti la presenza del Pokemon Café, dove ci siamo sciroppati un’ora e spicci di coda per il nostro a quel punto meritatissimo cappuccino di Charizard, accompagnato da un float con sopra un bellissimo biscotto a forma di Fuecoco. A quel punto ci è venuta gola (strano…) e abbiamo preso anche qualche tortina a forma di altri pokemon.

La cosa molto più inaspettata è stata vedere una persona vestita da gigantesco Pikachu entrare in sala mentre mangiavamo per uno spettacolo che, devo confessare, ha entusiasmato anche me che Pikachu non lo posso soffrire. Va detto che nei café giapponesi, sia i maid café che altri tipi, sanno veramente come coinvolgere le persone come me che sotto sotto non vedono l’ora di mettersi un paio di orecchie da gatto e urlare cose senza senso (MEW MEW!).

Dentro questo incredibile posto che è il Parco però le sorprese non finiscono mai, perché sullo stesso piano del Café abbiamo trovato il negozio ufficiale della Shonen Jump dove c’erano ovviamente in vendita tutti i ninnoli che un vero amante degli shonen anela sin dal momento della pianificazione del viaggio in Giappone: da pupazzi ad action figure a sticker, persino il porta-abbonamento-dei-mezzi con il tuo eroe preferito di My Hero Academia o il tuo stregone preferito di Jujutsu Kaisen, che nel caso di Agnese è Satoru Gojo, del quale ha preso il case per la IC card. Io stesso sono uscito dal negozio con una vagonata di adesivi e il case per la IC card di Shoto Todoroki.

Ma non finisce qui, perché oltre a questo lì dentro è possibile trovare innanzi tutto un negozio dello Studio Ghibli dove potete scattarvi un po’ di foto con un Totoro a grandezza naturale e una ricostruzione perfetta della metropolitana della Città Incantata, con tanto di Senza-Volto passeggero. Fatto questo, non vi resta che recarvi sullo stesso piano al Godzilla Store, e allo store della Capcom dove statue giganti di Monster Hunter vi daranno il benvenuto - e dove io personalmente ho visto il mio primo trailer di Monster Hunter Wilds, rimanendo con la mascella a terra.

Agnese abbracciata a un enorme Totoro

Non vi basta? Al piano -1 se non sbaglio fanno la fluffy cheesecake.

Dice ma avete solo mangiato? E il castello di Osaka? A queste provocazioni voglio rispondere con una citazione della Sora Lella:

Ma famme magnà, ma che me frega!

Koyasan

Un tramezzo molto emozionante della nostra permanenza a Osaka (e a questo punto dintorni) è stata la visita sul monte Koya per goderci la sua ricca presenza di monasteri buddisti e il cimitero più grande del Giappone, dove abbiamo potuto dare un’occhiata alle tombe moderne ma soprattutto ammirarne di antichissime. Arrivati in quello che è praticamente un grosso villaggio abbiamo prima di tutto preso possesso della nostra stanza nel monastero presso cui avevamo prenotato, con conseguente scoperta del fatto che c’erano un sacco ma veramente un sacco di cimici.

Dopo aver fatto questo ci siamo precipitati fuori prima di tutto a mangiare una cosa perché si era fatta ora di pranzo (e di nuovo che fai, te ne privi?), con conseguente incontro ravvicinato da parte di Agnese con il kitsune udon, ovvero una zuppa di udon con il tofu buonissima. In seconda battuta e con lo stomaco pieno ci siamo effettivamente avventurati nel cimitero, che sul calar del sole ci ha offerto una luce clamorosa per scattare qualche foto e goderci la sua atmosfera stupefacente, mistica e spettrale.

Io non credo di essere mai stato in un posto così bello, stante il fatto che ormai sono dipendente dai cimiteri giapponesi perché li trovo luoghi meravigliosi: il cimitero si estende per kilometri e kilometri, e semplicemente le tombe proseguono a perdita d’occhio in ogni direzione, camminando, finché semplicemente non si torna indietro. Il verde del muschio e degli alberi fanno da padroni in questo scenario suggestivo dove è facile immaginare un samurai che cammina, un signore della guerra che va a fare visita ai propri antenati, o semplicemente un monaco che passeggia. Dipendentemente dall’orario, immagino che vedere un monaco che passeggia in un luogo come questo sia quantomai banale, ma è comunque di una poesia stupenda.

Koyasan

Pensavate che dato il tenore del luogo non parlassimo di cibo? E invece voglio stupirvi: il monastero in cui abbiamo alloggiato ci ha servito la loro versione della cena tradizionale, dove io non ho letteralmente idea di cosa ho mangiato. Se avete letto la mia recensione della precedente cena tradizionale sapete cosa tendo a pensare di questo tipo di pasto, che semplicemente di solito non è “la mia tazza di tè” (verde); in questo caso invece ho preso le bacchette, ho iniziato a mangiare, e a parte qualche vedura fermentata strana quando ho terminato tutti i piatti e piattini di cui disponevamo erano completamente vuoti. Una cena deliziosa, di cui non saprei assolutamente descrivere il contenuto a parte riportare che erano (tipo) dieci versioni di tofu diverse, con metodi di cottura diversi e connotati assolutamente diversi tra loro, ovviamente il gohan (ovvero il riso) e molte verdure fermentate o cotte al vapore.

Immaginatevi, e non scherzo, la versione stellata di una cena che segue pedissequamente la dieta buddista.

Perché dico stellata? Perché tornati a Osaka, mi sono distrattamente sfilato di tasca un fogliettino di carta e mi sono accorto che era la ricevuta del pagamento presso il monastero. Tra le voci veniva riportata una “Michelin starred dinner”. Ho contestualmente appreso che ai monasteri di Koyasan, non so se a tutti o solo ad alcuni, è stata attribuita la stella verde. Non a caso, terminando la nostra cena, avevo detto a Agnese che malgrado la dieta buddista non sia esattamente quello che io vado a cercare in una cena giapponese, comunque credevo che quel posto fosse stato il miglior posto dove avevamo mangiato di tutta la vacanza.

Lo credo ancora. È un’esperienza che vi consiglio, cimici a parte.

Tokyo, il ritorno

È stato a questo punto della vacanza che sono cominciati i pianti, perché siamo tornati a Tokyo sempre a cavallo del nostro fantastico Shinkansen, e l’atmosfera del ritorno imminente ha iniziato a farsi palpabile.

Non appena messo piede in città (e come sempre preso possesso della stanza) Agnese ci ha tenuto ad andare a Kappabashi, un quartiere dove la specialità dei negozi sono gli articoli da cucina di ogni tipo, a partire ovviamente dai famosissimi coltelli giapponesi. Abbiamo preso appunti per poi tornare in un secondo momento e fare incetta a prezzi più che modici dei seguenti oggetti:

  • Porta-bacchette, per riporle con stile e praticità
  • Un bel wok
  • Una “omelettiera”, cioè una padelletta dove si fanno le omelette
  • Numero tre coltelli giapponesi di ottima fattura
  • Un tanuki di ceramica grosso come la mia testa, circa

D’altronde, avevamo ancora spazio nelle valigie vuote che avevamo portato dall’Italia, quindi ci siamo fatti queste coccole materiali che rimarranno con noi per sempre.

Dopo Kappabashi ci siamo dedicati a Sensō-ji e le sue lanterne giganti, che devo dire sono veramente uno spettacolo per gli occhi. Purtroppo la folla che le permea un po’ meno, quindi pur apprezzando la zona (in cui se dovete fare qualche regalino carino e cretino vi potete soffermare dato che è pieno di bancarelle e negozietti), la nostra visita è durata tutto sommato poco per poi ovviamente mettere qualcosa sotto i denti ancora una volta preso dal konbini più vicino.

Il giorno dopo invece Agnese mi ha portato in un posto allucinante: dato che avevamo deciso di dedicare grossomodo la prima parte della giornata a Akihabara, la prima fermata l’abbiamo fatta al santuario di Kanda che è molto particolare; è infatti conosciuto per essere il “santuario degli informatici”, e i suoi poteri protettivi per quanto riguarda l’information technology sono talmente rinomati che nel tempio viene venduto anche un amuleto per proteggerci dai virus. Ovviamente sono andato fuori di testa e, cosa rara per me, ho espresso un desiderio in questo tempio. Non si è ancora realizzato, ma non si sa mai, oppure chissà… i desideri a volte hanno sentieri molto bizzarri per la loro realizzazione.

Dopo Kanda è stato il turno della vera e propria Akihabara: paradossalmente non c’è molto da dire se non che chiaramente essendo il tempio della tecnologia e della “otaku-eria” siamo usciti a mani piene, con un po’ di action figure e soprattutto con un Gameboy d’epoca che io volevo assolutamente comprare come souvenir. Un po’ costoso, ma ne è valsa la pena specialmente per tornare a casa e infilarci la vecchia cartuccia di Tetris di Agnese.

L’esperienza che in prospettiva però è stata più divertente (almeno per me, ma sono sicuro anche per lei) è stata il maid café: finalmente dopo settimane passate a dire “oh guarda c’è un maid café!” qui e là la mia proposta è stata accettata con un certo grado di musoneria4: l’espressione perplessa ha tuttavia lasciato il posto prima a una faccia interdetta e in un secondo tempo a puro stupore davanti all’esperienza imbarazzantemente kawaii che offre un maid café che si rispetti. Io infatti vado fuori di testa di fronte a tutte le vocine e i gesti magici che bisogna fare prima di potersi mangiare una carinissima omurice con un disegnato sopra un gattino, un pandino o qualsiasi altro animale caruccetto. Non ve lo aspettavate da un metallaro come me eh? Ma lo sapete che oltre a essere un gran metallaro sono un ancor più colossale idiota, e ho verificato che i maid café colpiscono qualche tipo di punto debole per cui divento ancora più cretino.

Quello che però non mi aspettavo è stata la seconda sorpresa da parte di Agnese dopo Kanda, ovvero la sua proposta (pieni di riso della nostra omurice) di visitare Jimbocho, ovvero il “quartiere delle librerie”. Un’intera zona di Tokyo zeppa di librerie e caffè letterari. Purtroppo la passeggiata che abbiamo fatto per arrivarci ci ha permesso di vederne solo una parte, ma ne è valsa comunque la pena per permettere alla coppia innanzi tutto di vedere uno scorcio di Tokyo estremamente pittoresco, fare qualche ultimo regalino, ma soprattutto permettere al sottoscritto di acquistare un volumetto di illustrazioni sul metodo di Hokusai molto bello.

La mattina dopo avevamo una prenotazione molto speciale, ovvero quella per il teamLab Borderless. Devo essere sincero, mi trovo molto in difficoltà a doverlo descrivere a parole. TeamLab Borderless, detto in sintesi, è un museo di installazioni digitali che, viste nel loro insieme, formano un’unica gigante installazione. Come si traduce questo nella vostra visita? Vado a esporvelo: il museo mette a disposizione varie stanze, tutte dotate di un numero imbarazzante di sensori e proiettori nascosti nei posti più assurdi e funzionali, per cui raramente ne percepirete la presenza. Tutto quello che dovete fare è camminare per le stanze (cauti, perché potreste inciampare in altre persone) e godervi l’esperienza. Si viene avvisati dall’inizio che è meglio passare almeno un paio di volte in ciascuna stanza perché il contenuto delle stanze è variabile, quindi se si torna nello stesso punto è altamente improbabile che si veda la stessa identica cosa di prima. Questo rende il teamLab Borderless un’esperienza al limite del mistico, consumabile all’infinito senza che ci annoi.

Alcune delle “cose” che abbiamo visto mi hanno emozionato così tanto da commuovermi. Per esempio in una stanza viene nebulizzata dell’acqua nell’aria e contemporaneamente vengono proiettate delle visioni su questa aria densa di acqua, risultando nell’apparizione tridimensionale in giro per la stanza di (in quel momento) tantissime farfalle coloratissime. E così via. C’è anche una colonna sonora nel frattempo, di cui ovviamente mi sono segnato i riferimenti e non riesco a smettere di ascoltare.

Una delle stanze del teamLab Borderless

L’attrazione più famosa del teamLab Borderless si trova nella stanza un po’ più centrale, ed è questa cascata enorme che percorre tutte le pareti della stanza. La particolarità è che quando si tocca per esempio il pavimento coi piedi o una parete con una mano è possibile alterare il corso dell’acqua. Devo dire che raramente ho pensato che una simile applicazione della tecnologia fosse così poetica.

Quella sera è stata la nostra ultima sera a Tokyo. Abbiamo deciso di spenderla a Odaiba, guardando il Gundam gigante (scala 1:1) che si trova fuori dal centro commerciale muoversi, subito dopo aver provato “finalmente”5 un ristorante di sushi. Divertentissimo il fatto che i piattini arrivassero su un trenino :-D

Menzione speciale e gran consiglio che vi do: la linea per andare a Odaiba si chiama Yurikamome, io non lo sapevo ma è una linea sopraelevata che vi darà la possibilità di farvi al solo costo del biglietto dei mezzi (rigorosamente pagato con la vostra IC) un giro panoramico di un sacco di quartieri di Tokyo passando persino in mezzo ai grattacieli e ai condomini. È un’esperienza mozzafiato, quasi quanto il Gundam che troverete a Odaiba.

Il giorno dopo ancora? Un’ultima colazione, e dritti in aeroporto dopo aver ultimato i preparativi per i bagagli, ignaro di quanto quel posto mi sarebbe mancato, quanto avrei pianto scrivendo questo resoconto, e quanto intensamente mi sarei trovato a parlare di questi argomenti con i miei amici che sono anche loro stati in Giappone, commuovendoci insieme, aspettando qualche prezzo pazzo per tornarci prima possibile.

I konbini, ovvero i convenience store

Vale la pena spendere più di qualche parola nei confronti dei konbini, che è la presa in prestito e la contestuale abbreviazione da parte del giapponese delle parole “convenience store”. In realtà il concetto di convenience store è qualcosa di cui possiamo far esperienza anche altrove (varie catene di convenience store esistono anche negli Stati Uniti, per esempio), ma in Asia devo dire che il concetto è portato all’estremo. Mi è stato anche riferito contestualmente che noi occidentali non facciamo che scalfire la superficie di questo fantastico ecosistema.

In Giappone i konbini sono principalmente appartenenti a tre catene:

  • Seven Eleven;
  • Lawson;
  • Family Mart.

Un po’ tipo lo starter dei Pokemon, è inevitabile che si comincino ad avere le proprie preferenze anche in termini di catene di konbini dopo qualche settimana di permanenza. Io sono uno sfegatato fan di Seven Eleven, ma su Youtube per esempio ho visto varie persone in fissa con Lawson per la qualità dei loro carboidrati (molto specifico eh). Altri ancora mi hanno detto che Family Mart ha roba freschissima e tendenzialmente vanno lì. Insomma, come potete vedere è una cosa molto personale e non ho capito per quale motivo molto intima, che sfocia a volte in un tifo da stadio insensato. Agnese stessa preferisce Lawson per alcune cose e a tratti sono stato guardato come un senzadìo per la mia smisurata fissa nei confronti di Seven Eleven, maturata un onigiri e una korokke alla volta.

La cosa assolutamente sovrannaturale relativa ai konbini è che se ne può trovare uno in ogni isolato. E intendo davvero. Questo fa sì che non facciamo mai più di qualche decina di passi senza incontrarne uno che come un faro di speranza ci offra qualsiasi cosa di cui abbiamo bisogno in quel preciso momento. Vuoi da mangiare? Entri al konbini. Vuoi una rivista? Entri al konbini. Hai scordato il dentifricio e stai andando a dormire da un amico? Entri al konbini. La tua è una casa giapponese tipica e non hai la cucina, ma hai comunque bisogno della cena? Entri in un konbini, perché oltre al cibo da pronto consumo ha anche cose più elaborate che possiamo infilare nel microonde.

Non ti piace scaldare al microonde? Al banco frigo puoi comprare un piatto freddo. Hai sete? Ci sono diecimila marche di tè e acque varie tra cui acque “ai gusti”. Vuoi alcolici? Ci sono anche un totale di marche di birra che fa spavento.

Sinceramente per me entrare in un konbini è sempre una delle cose più divertenti in un viaggio in Giappone, e dopo tre settimane passare a entrare e uscire dai konbini di qualsiasi quartiere e città posso dire che una volta tornato mi è mancata per parecchio tempo la sensazione appagante di avere sempre a portata di retina un’insegna con un logo di un Lawson o di un Seven Eleven.

Ode all’onigiri tonno e maionese

Parlando appunto di konbini, al banco frigo ci sono sempre mille schifezzuole con le quali se hai avuto un brutto momento puoi riconsolarti, a prezzi assolutamente popolarissimi. Oppure che so, se vuoi farti un pranzetto o una merenda “on the go” senza scomodarti a preparare un bento6.

Tra tutti gli onigiri e le cose “a forma di” che abbiamo provato però ce n’è una che mi è (ci è?) rimasta particolarmente nel cuore: l’onigiri tonno e maionese che può essere trovato appunto in qualsiasi konbini. È di una bontà celestiale, e soprattutto di una semplicità allucinante, che mi ha ricordato appunto il discorso che viene fatto spesso sulla pizza margherita. Se per tanti la pizza margherita è il tipo di cibo in Italia che con tantissima semplicità ti fa sazio e contento, possiamo dire che in Giappone l’onigiri tonno e maionese sia quel tipo di alimento.

Personalmente penso che siano poche le tragedie della vita che un onigiri tonno e maionese al momento giusto non sia in grado di alleggerire almeno un po’. Ho la sensazione che se vivessi lì, esattamente come in Italia ho i miei alimenti coccola, in Giappone avrei decisamente adottato questo come alimento del cuore.

Ancora adesso chiudendo gli occhi riesco a rivivere perfettamente il turbinio di sensazioni legato al mangiare un onigiri tonno e maionese seduto in un parchetto con i petali dei fiori di ciliegio che ci cadono intorno. Il pranzo in fretta e furia prima di prendere uno shinkansen. Il languorino in un vicolo di Tokyo, e l’accostarsi con la plastichetta in mano perché non si cammina mentre si mangia.

Tutte queste immagini sono caratterizzate dalla presenza di un onigiri tonno e maionese. Preferibilmente del Seven Eleven.

Gli abbonamenti dei mezzi, ovvero le IC Card

Una cosa che mi ha sempre affascinato del Giappone è il loro modo di andare in giro. Non mi riferisco all’andare in giro in crossdressing o cosplay, quanto principalmente alle carte che tirano fuori ai tornelli della metro e che è possibile vedere anche in altre occasioni. Già sapevo un po’ cosa fossero, ma con questo viaggio ho colto l’occasione e mi sono fatto una vera e propria cultura in merito: le tessere di cui ogni cittadino giapponese è provvisto sono infatti IC card, e sono nate principalmente per prendere i mezzi, un po’ come il nostro abbonamento magnetico dell’ATAC o dell’ATM.

Ci sono vari “brand”, ognuno relativo alla proprietà del circuito ferroviario su cui si sta viaggiando: il più famoso è Suica, la cui mascotte è un pinguinone, relativo al circuito JR East. A ruota come popolarità segue ICOCA, il cui simbolo è un simpatico ornitorinco blu con il becco giallo. Se ne trovano anche di altri, come PASMO, SUGOCA, PiTaPa, nimoca.

Fino a qui uno dice, vabbeh è un semplice abbonamento dei mezzi. È qui che la cosa si fa interessante, perché nel 2004 già Suica e ICOCA hanno fatto in modo di funzionare in maniera intercambiabile, quindi per una persona che era in possesso di una o l’altra carta era già possibile viaggiare passando sempre la stessa tessera al tornello. Fin dal 2010 tuttavia si è cominciato a discutere di un sistema alternativo che prevedesse un meccanismo di federazione.

Nel 2013 è stato così lanciato il Nationwide Mutual Usage Service (全国相互利用サービス), che prevede che ogni carta aderente a questo nuovo standard possa essere usata con qualsiasi tornello. Ogni servizio di abbonamenti e relativo tipo di tornello in Giappone quindi è pressoché completamente interoperabile. E fin qua, uno dice vabbeh dai, è quasi il minimo. A parte che vorrei vedervi a entrare in metro a Roma col vostro abbonamento dell’ATM, ma non finisce qui.

Il circuito delle IC Card infatti è stato talmente espanso da diventare un vero e proprio circuito di pagamento generico per cui in Giappone possiamo trovare letteralmente qualsiasi tipo di servizio che accetta pagamenti attraverso la nostra bellissima carta magnetica (o NFC via wallet del telefono), e intendo veramente qualsiasi: ai konbini è quasi sempre possibile pagare con l’ICOCA (nel mio caso, perché ho comprato una ICOCA fisica), ma abbiamo comprato anche bevande dalle vending machine per strada pagando con l’ICOCA. Per finire, l’uso più bizzarro che ho fatto della mia ICOCA è stato per pagare la lavatrice in albergo. Non mi sarei mai aspettato di poter usare un pagamento contactless per pagare una lavatrice, specialmente dato che inaspettatamente i giapponesi sono così fan del contante, eppure non solo potevo pagare con qualsiasi tipo di carta contactless, ma anche con la IC Card.

Assurdo.

Come potete leggere sopra io appena arrivato a Kyoto ci ho tenuto tantissimo a comprare un’ICOCA fisica perché a quanto pare data la carenza di materiali di fabbrica la Suica ha messo un freno alla distribuzione delle proprie carte fisiche, così come qualsiasi fornitore di IC: a Kyoto in metro è ancora possibile incontrare dei tornelli blu (blu ICOCA, blu JR West) dove è possibile acquistare gli ultimi “esemplari” di una ICOCA fisica. Qualsiasi provider sta ormai incentivando gli utenti a passare alla controparte digitale, che almeno su iOS è nativamente integrata nel sistema operativo: un tap dell’icona “+” all’interno del Wallet e potrete subito richiedere la vostra IC digitale del provider che più vi piace. In particolare so che l’integrazione di ICOCA con addirittura Apple Watch è molto recente, semplicemente perché la metro di Kyoto era tappezzata di pubblicità.

Conclusione

Questo post è lungo, e a scriverlo ci ho messo un sacco. Cominciarlo mi è costato, perché di fatto è stato l’inizio di un processo di elaborazione del lutto, e finirlo mi costa ancora di più. Spero che traspaia quanto importante e magico sia stato questo viaggio per me. Spero che traspaia anche quanto non vedo l’ora di tornarci, lì in Giappone.

ありがとう!

  1. Io stesso non sono un grandissimo fan del servizio ma allo stesso tempo devo dire che dopo mezza giornata (letteralmente) sopra a un aereo non doversi preoccupare troppo di quale autobus prendere e quali biglietti fare è stato un bellissimo cuscinetto di comfort. 

  2. Dettagli che senza dubbio non troverete in nessun altro diario di viaggio di quelli ripuliti. 

  3. Riuscendo anche a mandare educatamente a fanculo un italiano in italiano che pensava fossimo di qualche altra nazionalità e ci ha indirizzato degli improperi gratis mentre eravamo sull’autobus. Che abilità eh? 

  4. “Non vorrai mica andartene senza aver visto nemmeno una volta un maid café? E se poi te ne penti? Ma che dico, sicuramente te ne penti!” 

  5. Quantomai bizzarro ma anche parecchio esplicativo di quella che è realmente la cucina giapponese il fatto che il sushi l’abbiamo mangiato letteralmente per la prima volta l’ultima sera a Tokyo. Se siete preoccupati per la vostra dieta, direi che il Giappone vi offre tutti gli strumenti per infrangerla se è meramente una questione di peso. Come meta lo sconsiglierei invece a vegetariani e vegani, perché devo ammettere che trovare alternative proteiche alle uova in primis e alla carne poi nel paese del Sol Levante può essere veramente veramente veramente complicato. 

  6. Vale un po’ per tutto dato che i giapponesi mangiano a qualsiasi orario. 

GNOME 46: note d'uso oneste dopo qualche giorno

Esattamente come sul laptop su cui guardiamo le serie ho installato, a tempo perso, openSUSE Kalpa, su un po’ di altre macchine incluso il mio fisso ho vari flavour di openSUSE1 Tumbleweed che mi hanno permesso di avere a tempo di record GNOME 46, su cui volevo scrivere un paio di note prima di partire domattina per il Giappone2.

GNOME 46

Il desktop in sé è bellissimo: personalmente negli ultimi anni sono passato da essere uno zelota del theming (o dei WM tiling direttamente) ad adorare l’estetica di Adwaita. È praticamente uguale al precedente se non fosse che molte applicazioni hanno subìto un revamp del codice e il porting a GTK4, con relativa adozione dei nuovi widget grafici. Ripeto, credo che non sia qualcosa che fa contenti tutti, ma per me il traguardo che è stato raggiunto è esteticamente clamoroso. L’usabilità è ancora un po’ traballante, specie per quanto riguarda il design di File, il file manager, che è stato un po’ stravolto, ma non mi posso decisamente lamentare.

Chi ha usato un Mac lo sa: macOS non è esattamente il mostro di usabilità che in tanti descrivono, specialmente quando si tratta di Finder. La nota positiva è che File ormai è sempre più simile a Finder; la nota negativa è che di Finder rischia di ereditare anche le storture.

A parte questo però volevo fare un applauso per una feature in particolare, ossia l’integrazione con WebDAV, CardDAV e CalDAV, che mi ha permesso finalmente di importare sul calendario i miei calendari di Fastmail senza passare da interazioni strane con Evolution. Finalmente per il mio desktop è il 2024 e mi è bastato almeno solo debuggare Fastmail. :-D

In particolare ci tengo a ringraziare Emmanuele Bassi che mi aveva colto tanto tempo fa a urlare e far discendere l’anticristo in merito e contestualmente aveva colto l’occasione per avvisarmi dell’uscita di questa patch a firma sua e di Andy Holmes. Essendo un utilizzatore compulsivo delle app di calendario, questa cosa mi ha veramente cambiato il modo in cui configuro tutto il mio ambiente desktop. Mi sono sentito come un bambino che apre, e ci sta visto il periodo, un uovo di Pasqua.

La cosa meno bella è che visto il tempestivo arrivo di GNOME 46 in openSUSE Tumbleweed si sono rotte più o meno tutte le estensioni che uso e che non mantengo io. Sono due in croce, dato che col tempo ho imparato ad apprezzare molte delle scelte (e delle marce indietro…) del team di GNOME, ma mi sento comunque un po’ monco. Contestualmente ho notato quanto veloce sia stato il packaging, e questo mi ha dato l’occasione di riflettere sul fatto che in tempi non sospetti avrei pagato per un impacchettamento così veloce, mentre oggi che sono un po’ più “seasoned” avrei apprezzato un pochino più di calma nei miei aggiornamenti.

Sarà mica già il caso di passare a Slowroll?

A parte tutto, sono felicissimo di questi “quality of life improvements”, come li chiamano quelli forti.

Ora vado a fare le valigie.

  1. Chiamatemi aziendalista :-D diciamo che negli ultimi tempi ho preso la mano con openSUSE fino a diventarne anche in piccolissima parte sviluppatore, quindi volevo assaggiare in prima persona quello che usciva fuori. 

  2. I matti veri, quelli che invece di pensare come gli ossessi a fare le valigie hanno ancora il terminale aperto. Decidete voi se sono un poser o un sociopatico. 

Due parole su KDE Plasma 6 in openSUSE Tumbleweed

Giusto una nota piccolina sull’aggiornamento a KDE Plasma 6 sul laptop che uso per vedere le serie, che assolve a quello e pochi altri ingrati compiti, sul quale ho installato proprio per avere poche possibilità che le cose andassero storte MicroOS Kalpa, che sarebbe la stessa cosa di MicroOS Aeon (quindi MicroOS ma pensato per il desktop) ma con KDE al posto di GNOME.

Per capire come mai sono così soddisfatto, una necessaria premessa: MicroOS è letteralmente openSUSE Tumbleweed, ma con l’immutabilità applicata, quindi semplicemente tutto quello che modifica il sistema di base viene “inkebabbato” dentro una transazione. Questo fa sì che il sistema passi tramite un reboot dallo stato A allo stato B, senza stati intermedi.

Devo dire che effettivamente l’infrastruttura ha mantenuto la parola: sulla mailing list di openSUSE Factory ho letto tantissime persone che si sono lamentate di problemi relativi alla persistenza della sessione, particolarmente del fatto che la sessione grafica sia stata compromessa a metà aggiornamento e chi magari stava usando un terminale tipo Konsole per aggiornare ci ha quasi rimesso il setup.

Devo dire che grazie al filesystem gestito in maniera (quasi) interamente transazionale a me non è successo: fuori KDE 5, dentro KDE 6, semplicemente tramite un reboot. Anzi, voglio fare il coatto ancora di più: grazie agli update automatici ho continuato a vedere le serie di cui sopra (Doctor Who in particolare) senza accorgermi di niente.

Qualche piccolo problema l’ho avuto al reboot: un po’ di impostazioni sono andate perse, tra cui quella per lo scaling factor del mio monitor 4K, ma soprattutto mi trovo installate due copie di VLC: una è la consueta installazione via Flatpak, l’altra è un’installazione che credo il package manager si sia sentito autorizzato a tirare dentro dai repository1.

Smooth.

O quantomeno: rispetto a quello che leggo in giro, una crema.

  1. Ne sono abbastanza sicuro perché mancano tutti i codec. 

Mandami un'email

Adoro le email. Non c’è niente da fare. Rispetto a tanta tecnologia che nel corso dei decenni è andata e venuta le email sono sicuramente una soluzione tecnica che non solo è rimasta, ma per me al pari delle pagine web è assolutamente impossibile da distruggere.

Qualche giorno fa leggevo da Manuel che c’è gente ancora convinta, dopo i tentativi degli anni 2010 (tipo quella roba oscena che convertiva le mail in una sorta di todo list, non mi viene il nome), che le email possano essere soppiantate da questo nuovo paradigma olistico messaggistico paraculistico. Peccato che nessuno abbia ancora capito in che direzione andare.

E sapete perché? Nonostante io sia un fortissimo sostenitore della sperimentazione, dirò: perché non c’è alcun bisogno. Nel 2024 l’email continua a essere l’uovo di colombo della comunicazione su Internet. Lo testimonia persino il nuovo boom delle newsletter (di cui paradossalmente non sono un fan).

Non sono ancora arrivato al punto di vista drastico di Manuel o di Andrea, che hanno dismesso completamente i commenti sui propri blog per lasciare spazio alle email. Lo spazio dei commenti è ancora un piccolissimo forum per me, e le interazioni “molti a molti” che ho avuto negli anni qui e altrove sono state assolutamente di valore. Nonostante questo trovo che abbiano ragione nell’esprimere che le interazioni via email hanno qualcosa di estremamente intimo, riservato. Un’email al momento giusto ti rimane dentro per sempre, secondo me.

Quindi?

Quindi anche qui la porta è sempre spalancata. Mi raccomando: [email protected], ci tengo.

Hello Miniflux, ovvero come ho scoperto il miglior RSS reader del mondo

C’è una storia il cui racconto ho sempre rimandato.

Io sono sempre stato un fedelissimo utente di Feedly, fino a qualche tempo fa, talmente fedele da mantenerne il supporto dentro Newsflash per un bel po’ di tempo. La farò breve: Feedly come azienda a un certo punto ha deciso che degli utenti se ne sarebbe sbattuta abbastanza i cosiddetti, e contestualmente alla scadenza del developer token di Newsflash (quello associato al “nostro” App ID) ha provveduto a spiegarci in maniera assolutamente certosina che avrebbe considerato l’emissione di un nuovo token solo a fronte del fatto che il team di Newsflash (nella persona di Jan Lukas) avesse realizzato un client in grado di usare le loro feature di intelligenza artificiale.

Siccome a lui di fare questa cosa non andava, a me meno che meno, alla fine io con mio sommo scorno1 non ho più potuto mantenere l’integrazione con Feedly, e lui è stato costretto a togliere il supporto al servizio di sincronizzazione perché, in the end, con il nostro token scaduto aveva smesso di funzionare.

Questo è, diciamo, il prologo di questa storia.

In un secondo momento sono diventato un utente abbastanza affezionato di Inoreader, di cui ho anche pagato una subscription. Pochi spicci in pratica, ma erano comunque i miei spicci, e finalmente credevo di aver trovato un feed reader decente in grado di farmi riprendere l’affezione per i feed RSS come mezzo d’informazione: questo è stato vero in parte. Se con il telefono avevo un mezzo perfetto per fare questo, ovvero NetNewsWire, un’app per iOS che si integra perfettamente con Inoreader, dall’altra parte sul mio computer sono sempre stato condannato a dover abbandonare Newsflash (il mio client RSS preferito, a cui ho anche contribuito!) perché a meno di avere un access token dedicato la quota riservata all’access token “ufficiale” di Newsflash era esigua e costantemente cannibalizzata. Il vero problema è che Inoreader per un accesso API decente, dedicato, e comunque soggetto a rate limiting e quote piuttosto stringenti chiede un prezzo che è il triplo di una subscription normale.

Per quanto ci abbia pensato, comunque non ho mai trovato la voglia di strisciare la carta di credito per questo. Di tutte le cose per cui adoro farmi rubare i soldi, l’accesso API in toto a una piattaforma è qualcosa che credo rientri comunque nei diritti di qualsiasi utente. Una questione di principio, se vogliamo. Fatto sta che l’altro giorno, non ricordo titillato in quale maniera, in call con Gianguido e Simone, ho iniziato a urlare frasi sconnesse sul tema e dopo un po’ il buon Gianguido ha pensato bene di erudirmi sullo stile dell’apone della Cheerios: “Ma tu Miniflux l’hai mai provato? Perché sembra esattamente quello che vuoi tu - ed è self hosted”.

Ovviamente la mia risposta è stata sull’onda del “se prima avevi la mia curiosità ora hai la mia attenzione”, e ho cominciato a investigare.

E quindi adesso vi spiego perché Miniflux è il feed reader migliore del mondo.

Innanzi tutto ha un’interfaccia web minimalissima. E quando dico minimale intendo davvero minimale, no notifiche, no toast, no cazzate, solo tu e il testo. Penso che il tutto siano solo template statici, che per un’app del genere assolvono il compito perfettamente.

Poi: installarla è una scemenza. L’applicazione specie dalla v2 in poi è un solo binario, è scritta in Go, si prende tutta la configurazione da variabili d’ambiente eccellentemente documentate. Abbisogna solo del classico Postgres d’appoggio per i dati. Io con cinque bicchieri di vino in corpo all’una di notte l’ho deployata su un cluster Kubernetes a occhi chiusi.

Terzo: siete troppo pigri per installarla da voi? Non avete un server su cui ospitare questa fantastica applicazione? Per 15 dollari l’autore vi crea un account sulla sua hosted instance. Fantastico.

La lista delle integrazioni è enorme: su NetNewsWire basta selezionare FreshRSS e mi pare che vada anche abilitato un layer di compatibilità API nelle impostazioni, e siamo a cavallo. Newsflash la supporta nativamente. Reeder sono sicuro che la supporti tramite il layer di Fever API. C’è la disponibilità dell’integrazione con Pocket e con letteralmente qualsiasi altra cosa ci venga in mente.

Un vero gioiello.

Da meno di 24 ore sono tornato ad appropriarmi dei miei feed RSS e devo dire che sono felicissimo, perché applicazioni come Miniflux mi fanno credere che un’informatica fuori dalle logiche di Internet vista solo come un’enorme vetrina sia ancora possibile.

  1. Anche perché è stata per molto tempo l’unica opportunità che ho avuto di stare a contatto con una codebase scritta in Rust di un certo peso e di una certa estensione. 

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