Alessio Biancalana Grab The Blaster di Alessio Biancalana

LeWeb '12: un trionfo di open source per wiMAN

In questi ultimi giorni, oltre la carambola di cose che mi sono accadute ho ricevuto una email di cui sono stato veramente contento: era Michele Di Mauro, il CTO di wiMAN, che mi avvisava del fatto che al LeWeb di Parigi la startup, che ho già avuto modo di analizzare attraverso #opencore, faccia parte delle concorrenti finaliste.

wiMAN

È un grande traguardo, per una startup, quello di arrivare così avanti: a maggior ragione mi voglio far portatore anche io, un po', della loro bandiera per il fatto di essere stati prima di tutto ospiti in #opencore, ma soprattutto di aver speso abbondantemente le loro parole per difendere a spada tratta l'ecosistema open source senza il quale, a detta loro, non ci sarebbe stata nessuna wiMAN.

Quindi, ragazzi, andate così, complimenti, e soprattutto a questo punto cercate di portare a casa un bel risultato (di cui questa finale conquistata fa già parte in maniera consistente), perché state portando avanti una grande battaglia: quella per il primato italiano a LeWeb, quella per una startup forte sulle spalle dei giganti dell'open source, e soprattutto quella per il sud Italia; venire dalla Puglia, regione che adoro, significa riconoscere ad una compagnia la possibilità di fare ancora qualcosa, in maniera innovativa, e senza dover lasciare il Paese.

Auguri. ;)

Open data: bug e bugfix.

Se lancio una palla, da una parte, dall'altra per condurre un gioco secondo determinate regole ci deve essere qualcuno a raccoglierla, altrimenti il gesto perde di senso. È questo uno dei compiti degli open data: da una parte decentralizzare il potere, togliendolo dalle mani e dai cassetti di chi prima faceva del dato raw una merce di scambio per favori molto spesso personali. Il secondo compito, tuttavia, è quello come ho già detto in passato di stimolare gli hacker civici e la popolazione in generale a produrre valore aggiunto rispetto a questi dataset, attivando un meccanismo virtuoso che parte dal bit, e impatta sullo stile di vita della popolazione circostante.

Durante Green Open Data, poco prima della presentazione di TweetYourMEP, ci siamo imbattuti in qualcosa a cui onestamente io avevo già pensato, ma era qualcosa a cui non avevo osato dar sfogo: c'è stato chi l'ha fatto prima di me, chiedendo se non sia possibile stimolare le amministrazioni a produrre e liberare una serie di dataset "predefiniti", a beneficio degli hacker interessati all'uso di questi dati. Le risposte sono state molto vaghe, e la più soddisfacente in buona sostanza recitava: "partiamo con le cose facili, perché obbligare un'amministrazione a fare questo vuol dire complicare lo scenario, e mettere i bastoni tra le ruote a chi vuole semplicemente liberare i propri dati".

open gov data

Penso conosciate tutti Yoda. È la figura che in Star Wars esemplifica ed incarna la saggezza suprema, colui che grazie all'esperienza di una vita molto lunga, ha accumulato un bagaglio culturale tale da fare sempre la scelta giusta. Ne L'Impero Colpisce Ancora, Yoda si esibisce in una meravigliosa considerazione di stampo quasi taoista: "Do, or do not. There's no try." - sostanzialmente possiamo usare questa citazione per un grosso numero di esempi. Gli open data fanno al caso nostro per raccogliere la riflessione di Yoda: dobbiamo fare. Lo spazio per i tentativi è rimasto a zero, in una condizione come quella attuale, e per quanto la tematica sia calcata con passo incerto dalle amministrazioni, dobbiamo ammettere che è tardi per far rimanere gli open data un tema di nicchia ma non solo: qualcosa a cui gli sviluppatori credono e non credono.

Ad oggi infatti il viaggio di uno sviluppatore all'interno del panorama open data è pieno di incertezza: speriamo di trovare quel dataset, e speriamo di trovare le informazioni che mi servono. O al contrario, che figa questa informazione, adesso ci faccio un'applicazione ma, attenzione, speriamo per allargare il mio raggio d'azione che altre amministrazioni rendano disponibili dati dello stesso tipo. È tutto molto difficoltoso, e come detto da alcuni non è interessante in termini di ore/uomo che qualcuno sviluppi applicazioni su un modello così frammentato dove regna il caos più totale. Uno dei rischi di questo approccio per esempio è che arrivi Alfonso Fuggetta, e venga a dire che tutto quello che stiamo costruendo non funziona. È vero: non funziona. Ma diciamo (e lo dico da sistemista Linux, quindi avrei tutto l'interesse di dire il contrario) che molto del problema risiede nella prassi. Attraverso servizi come Singly possiamo facilmente costruire API che reggano il confronto con quelle di database ben più professionali. Con dei dataset così frammentati tuttavia è necessario uniformare l'esperienza di fruizione da parte del programmatore, rendendogli più facile la vita. In che modo?

  1. Stilare - e c'è chi ci sta già provando - un elenco di dataset che presumibilmente dovrebbero trovarsi in ogni amministrazione, o quantomeno che sarebbe buona creanza avere
  2. Effettuare un packaging di questi dati in una maniera universale (JSON può essere un modo) e interoperabile
  3. Aprire il dato avendo cura di aderire ad uno standard di nomenclatura in modo da consentirne un facile riuso e l'inclusione in algoritmi di ricerca per la creazione di API efficaci

Una volta messi in pratica questi tre punti, avremo una mole di conoscenza fruibile dagli hacker civici in maniera uniforme, ed un parco di potenziali applicativi molto più d'impatto del "greppatore di pini andati a fuoco durante l'incendio a Rocca Cannuccia".

Bisogna smetterla di cercare scuse, e attivarsi affinché la rivoluzione del dato aperto trovi corrispondenza d'amorosi sensi (scusa Ugo per la citazione aggratise) proprio nella popolazione e presso ulteriori, potenziali hacker civici.

There's no try.

Image courtesy of Justin Grimes

TweetYourMEP per Green Open Data a Roma

Una settimana fa ho presentato TweetYourMEP a Roma, in occasione di Green Open Data. È stata un'occasione per imparare tantissimo: ho rappresentato Spaghetti Open Data durante il panel delle applicazioni, e ho fatto tesoro della forza di tale modello, e anche delle criticità, in prima persona. Non credevo di poter subire tanta emozione, infatti, per il fatto che lo stesso palco fosse stato calcato qualche ora prima da Nicola Zingaretti, tantomeno avrei detto di poter soffrire così tanto la pressione del pubblico. Nonostante poi io abbia ricevuto ottimi feedback, credo ci sia molto da migliorare.

Le slide, che riassumono un po' tutti i punti che ho toccato durante lo speech, le includo qui sotto:

Mi sono già stati fatti dei complimenti a proposito di queste piccole integrazioni al mio discorso. A me effettivamente piacciono molto - mi sono anche divertito a farle. Spero piacciano anche a voi.

Nexus: adesso la famiglia è al completo

Se dovessi dire qualcosa sulla recentissima presentazione di Google (con un misero post, per colpa dell'uragano Sandy) dei nuovi arnesi inclusi nella gamma Nexus, sarebbe che finalmente hanno tolto di mezzo la "keyword" Galaxy dal nome dello smartphone, sganciando così la concezione del telefono per sviluppatori da qualcosa prodotto in casa Samsung. È così infatti: il Nexus 4 - così si chiamerà - viene prodotto da LG, e a parte la fastidiosa serigrafia del brand sul retro è identico, in tutto e per tutto, al "nonno" Galaxy Nexus, eccezion fatta per una parte posteriore ricoperta da vetro, molto più affascinante, se vogliamo, con dei pixel brillanti ma non troppo.

Al di là delle considerazioni puramente estetiche e molto sterili sul nuovo (anzi, uno dei) device di Google, trovo che Google abbia finalmente completato il proprio puzzle aggiungendo due pezzi belli corposi: finalmente i dispositivi Nexus infatti si integrano tra loro, interagiscono, sono interoperabili, grazie ovviamente alla cloud (se così vogliamo chiamarla) dove risiede il proprio account - e comunicano specialmente con il nuovo pupillo di casa Google, il Nexus 10 che, sovente rumoreggiato nelle settimane precedenti, oggi vede la luce, realizzato da Samsung (e non da Asus come per il 7). Con questo passo Google colma il gap che la separava dalla concorrenza, concorrenza che si è vista affannata a riprendere le fila del discorso dopo che, di fatto, il Nexus 7 aveva sconvolto il mercato con la sua user experience a misura di 7 pollici.

Il Nexus 4 dal canto suo difende bene il confronto a livello di feature del dispositivo con il predecessore: sono state migliorate a mio parere un sacco di cose nel form factor, come i bordi dello schermo che adesso consentono  un migliore swipe edge to edge; la maneggevolezza è aumentata, e grazie a queste piccole revisioni alla scocca del dispositivo possiamo rischiare meno di farlo cadere; personalmente, tuttavia, già faccio fatica a rapportarmi con i 4" stile iPhone 5, per così dire, del mio Xperia P, quindi non so veramente se il telefono, nel primo mese di vita in mio possesso, farà brutte cadute o sarà stabile nella mia saldissima e virilissima presa. Il retro, grazie al vetro, potrebbe fare una presa migliore sui polpastrelli, e sostituire più che bene l'antiscivolo del Galaxy Nexus.

Nexus

 

Android 4.2

Oltre i Nexus, come al solito, abbiamo Android 4.2 che porta una serie di sostanziali novità tra cui il supporto all'utenza multipla. Troppo spesso infatti abbiamo sentito parlare degli smartphone e dei tablet come di device fortemente personali, troppo pronti all'uso senza nemmeno una fase di setup e per questo accentrativi in maniera eccessiva di un'esperienza utente legata non al concetto di utenza singola, ma al device in un certo qual modo. Ebbene Android finalmente si discosta dal modello monoutenza facendo mangiare polvere alla concorrenza, integrando un menù per la scelta dell'utente e numerosi accorgimenti per "spersonalizzare" il device e trasferire tutto questo sul concetto di account, come accade tutt'ora negli OS dall'altra parte della barricata, nel mondo di chi col computer produce.

Ad ogni versione di Android Google, oltretutto, integra qualcosa proveniente dal progetto CyanogenMod. Ne ho parlato al Linux Day qualche giorno fa, di come questo fantastico progetto di fatto sia la linfa vitale downstream di Android, una fucina di idee che piano piano vengono integrate all'interno del progetto principale con un processo molto caratterizzante; qualche mese fa, in occasione del Google I/O, avevo elogiato il modello del processo software open source alla base di Android. Anche in questa occasione possiamo vedere come il menù dell'amministrazione energetica integrato nelle notifiche sia qualcosa di fortemente improntato sui fantasmi del passato di altre ROM, ed integrato in maniera molto più funzionale. Non c'è niente da fare: i designer di Android non finiscono mai di stupirmi.

Oltre questo, anche le notifiche espanse con tanto di bottoni erano qualcosa di già visto, stavolta non credo proprio in CyanogenMod quanto in qualche altro progetto. La camera sferica, invece, è qualcosa a cui, per quanto possa essere meravigliosa, fatico a trovare un senso vero; ma forse, alla fin fine, dovrò aspettare di avere il mio Android 4.2 tra le mani per vedere che uso ne farò.

Tastiera: Swype demolita dall'effetto Instagram

Non spenderò più di tante parole per questo punto, ma gli sviluppatori di Swype si sono appena presi un bello "swipe", in faccia. Google ha infatti integrato in Android 4.2 quello che loro chiamano Gesture Typing, ossia la scrittura attraverso lo scorrimento del dito sul monitor, cosa che la popolare tastiera alternativa faceva molto bene. A causa però della poca differenziazione del proprio business model, a causa del cosiddetto "effetto Instagram" l'applicazione è stata appena mandata in pezzi da Google che ha deciso di integrare tutto quello nella propria tastiera, sulla quale (già da Android 4.1) sta puntando molto, mirando a ridurre il gap con le tastiere - ottime, devo riconoscerlo - di Windows Phone e, anticipandolo sul tempo, di Blackberry 10.

7 o 10, questo è il dilemma

Orbene, dato che abbiamo una famigliola di prodotti Nexus piuttosto fornita e finalmente possiamo permetterci di scegliere il "polliciaggio" che più ci aggrada per il nostro tablet, non resta che scegliere tra Nexus 7 o Nexus 10. Personalmente, continuo a preferire il Nexus 7 dato che trovo i 10 pollici solo una moda, eccessivamente grandi persino per prendere appunti - e pensando a questo mi viene in mente la mia Moleskine, decisamente migliore per gli appunti di qualsiasi tablet, e decisamente più piccola di 10 pollici.

Nonostante tutto però, capisco chi possa sentire l'esigenza di appuntarsi le cose su un televisore portatile (perché, diciamocelo, la taglia è quella) ed effettivamente se vogliamo stare larghi come su un quaderno classico - che io a scuola non usavo - magari in quel caso le misure contano, anche se alla fin fine le dimensioni dello spazio non sono molto importanti, quanto come lo si usa.

Mi aspetto commenti sulla metafora oltremodo lubrica e pornografica immediatamente.

Niente spettacolo

Purtroppo l'uragano Sandy ci ha impedito di osservare Hugo Barra che si esibiva sul palco con la sua solita simpatia, e me ne dispiaccio, perché effettivamente adoro il suo modo di presentare: per fortuna abbiamo il video di The Verge che ci regala uno spaccato di come gli ingegneri Google percepiscono questa nuova release di Android. Questa assenza ha pregiudicato qualcosa? Effettivamente a sentire i feedback ormai la Apple ha fatto scuola, e mi sono sentito dire che il post sul blog di Google è stato squallido (vero), e che comunque potevano optare per un evento a porte chiuse, magari un hangout on air. Mica male come proposta, anche se non so quanto sia attuabile con la tempesta che c'è lì fuori.

Easter egg

Andate in fondo al tipico What's New e passate il cursore del mouse sul logo di Android.

Business open source, formazione e community

Ho letto un post che mi stimolato ad una riflessione sulla community, e l'ecosistema open source. Aldo infatti ha pubblicato una dichiarazione interessantissima di Bruno Maag, a capo del team che ha disegnato il font Ubuntu; ve la riporto per intero perché effettivamente merita.

Google con i suoi caratteri liberi, o “libre fonts” come a loro piace chiamarli, è un qualcosa che mi fa particolarmente paura. Vedi, se qualcuno vuole rendere disponibili gratuitamente i suoi caratteri è un affar suo e non ho nulla in contrario. Invece è una cosa molto diversa se una grande realtà aziendale, che ha un valore di mercato immenso, chiede a disegnatori giovani e senza esperienza di inviarle i loro caratteri per poche miserabili migliaia di dollari sotto la condizione di una licenza open source. Per me questo è sfruttamento e anche disprezzo della creatività. Purtroppo il risultato è che in molti casi i caratteri non sono di ottima qualità, visto che sono stati creati da artisti senza esperienza. Il ragionamento di colui che contribuisce è che questo è un modo per far conoscere il proprio lavoro e riceverne un qualche beneficio economico. Ma sono del parere che sarebbe stato molto più proficuo per chiunque se Google avesse investito questi soldi in borse di studio per creativi in modo da far frequentare loro uno stage da qualche parte, oppure per fargli studiare come si progettano i caratteri e, in cambio, poterli aggiungere nel loro sito. Investire così poco nei caratteri è un’offesa, considerato che tutto ciò dà un grosso valore aggiunto ai servizi web di Google. Abbiamo disegnato la famiglia dei caratteri Ubuntu ed è disponibile per tutti sotto una licenza aperta. Ma abbiamo ricevuto un adeguato compenso per crearla, un compenso che riconosce la competenza necessaria per la creazione di caratteri di qualità, sia dal punto di vista creativo che tecnico. Google dovrebbe prendere esempio da ciò.

Molto bene. Effettivamente, si corre sempre il rischio che il proprio repository di software, documentazione o altro diventi un posto dove gli sviluppatori vengono a farsi pubblicità, se non gratuita addirittura pagati da chi ha messo su l'infrastruttura - con moneta, o in altri modi. Questo che viene descritto è il modello di Google, che effettivamente non piace nemmeno a me (almeno per quanto riguarda i font), dato che può accadere sin troppo spesso che uno sviluppatore - si ché possiamo equiparare un designer a un developer ed un font ad un software, almeno in questo caso - prostituisca la qualità del programma in funzione dell'abbassamento del tempo di progettazione, e se questo accade troppo spesso ovviamente incorriamo in un decremento della qualità del codice complessivo. Esistono invece esempi ottimi di come la formazione possa essere un ottimo volano per l'open source.

Teaching

Casi di studio da cui partire? KDE è finanziato da Blue Systems, la quale oltre che contribuire monetariamente al progetto ha anche assunto gli sviluppatori principali i quali adesso possono dedicarsi totalmente a migliorare la user experience dell'ambiente desktop - che guarda caso è lo stesso che viene usato nelle workstation di tutta la compagnia. La quale, in maniera furbissima, investe in questo modo anche sul proprio outsourcing. Lo stesso Bruno Maag ci ha raccontato di come Dalton Maag abbia ricevuto per l'Ubuntu font un adeguato compenso monetario per la preparazione delle persone nel team.

Altri esempi negativi invece? A dispetto dell'ottimo lavoro di Canonical in altri campi, l'Ubuntu App Showdown è stato, complessivamente, un vero disastro. L'applicazione che ha vinto, Lightread, è ottima, e anche il secondo classificato non se la cava male, ma il resto è stato un piattume mostruoso in cui pochi hanno veramente fatto emergere le proprie qualità, dedicando risorse (mentali) ad un progetto vero invece di presentare esercizi di stile di una difficoltà progettuale prossima allo zero.

Al contrario investendo in formazione, concludendo, viene a crearsi un processo virtuoso in cui si genera un riuso di conoscenza acquisita per soddisfare un bisogno del singolo (azienda o community che sia) per cui, in un lasso di tempo che va da A a B si generano dei cambiamenti a livello mentale, in un gruppo di programmatori, positivi (acquisizione di conoscenza) e persistenti, per cui il nostro differenziale sulla preparazione degli sviluppatori di un progetto sarà necessariamente positivo. Tutto questo con un investimento minimo, non in attrezzatura, non in cicli di clock di una PaaS ma in formazione.

Photo courtesy of Kristina Alexanderson

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