06 Dec 2012
Da romanticone nostalgico quale sono, oggi avendo qualche minuto libero mi sono concesso una carrellata di screenshot non solo miei ricordando una serie di episodi, eventi, personaggi che hanno attorniato la mia vita di linuxiano, specialmente quando ero ancora nella fase di "nerd in crescita", dove le ragazze le guardavo col cannocchiale (e le vedevo anche piuttosto piccole anche lì, a dir la verità), ma dove col computer per certi versi smanettavo davvero.
Oggi ho smesso di compilare un sacco di roba da Git, ho smesso di recensire i rami di sviluppo delle applicazioni, ho smesso di fare un sacco di cose un po' per mancanza di interesse, dato che ormai viene tutto sviluppato in seno ai desktop environment (bene o male), un po' per voglia di stabilità e di cose che funzionano. Dato che, ovviamente, non ho mai creduto che per avere una "cosa che funziona" si debba necessariamente comprare un Mac: il fatto che sinora non abbia mai perso un secondo di produttività significa che ho insindacabilmente ragione.
Però restano i tempi: i tempi che furono, tempi in cui conoscevo gente e facevo cose, non consapevole come non lo erano nemmeno loro che ciascuno di noi poi sarebbe diventato un pezzettino dell'open source in salsa italiana nel mondo, chi per alcuni meriti, chi per altri. Particolare attenzione l'ho dedicata a questo screenshot.

Viene dal blog di Andrea Cimitan, al tempo conosciuto solo come Cimi, e dentro ci sono un po' di cose a cui sono affezionato, del panorama open source che è e di quello che fu:
- GNOME 2.x
- Compiz (quello vecchio)
- Clearlooks
- Arch Linux (col logo vecchio, vintage da paura)
Col tempo ci siamo dati tutti un po' un contegno, ma all'epoca eravamo (Andrea un po' meno) un gruppetto di nerdoni che stavano là, a parlare, a compiere hack. Immagino che anche il Cimi leggerà questo post, e sorriderà un pochetto. In fondo, quando tutto era meno "sicuro", ci si sentiva più una grande famiglia: adesso non è meglio, né peggio. I tempi sono cambiati.
Ma a volte, davanti al focolare, mi viene ancora voglia che i tempi siano quelli che furono, di avere del tempo libero da dedicare ai test più assurdi, e macchine a disposizione per riparare agli eventuali danni usando blasonati manuali e anche qualche intuizione. Bisogna guardare avanti, ma anche guardarsi alle spalle ogni tanto fa bene, oltre che far venire la lacrimuccia.
04 Dec 2012
Non credo di essere mai rimasto soddisfatto di un telefono, così come sono rimasto soddisfatto del Sony XPeria P, per un numero notevole di ragioni, essenzialmente a favore (in maniera mostruosa) dell'hardware che lo compone. Una serie di parti interne ottime, con in più a coprire il tutto una scocca in policarbonato da fare invidia anche al migliore degli iPhone, persino in quanto a design: le misure dei nuovi display di Apple infatti sono ripercorse precise da questo handset antesignano dell'iPhone 5, con al di sotto anche una "striscia" di vetro che, trasparente e con luci interne, provvede a tutto quello che è full touch nel dispositivo.

Tutto questo purtroppo ha due tipi di drawback: per prima cosa per riparare l'XPeria P serve un cacciavitino, dato che la scocca impone la chiusura "ermetica" e non a cerniera. Dal punto di vista del software invece il tutto risulta, per una serie di fighetterie tra cui la suddetta striscia di vetro con illuminazione interna, molto complicata da gestire. È ciò di cui mi sono accorto nel momento in cui ho provato a smanettare con il sistema operativo del telefono: installando versioni comunitarie di Android, non riuscivo ad ottenere gli stessi benefici della ROM ufficiale, se non meri miglioramenti prestazionali. Se la ROM di Sony infatti è un pianto continuo riguardo le prestazioni, anche se per fortuna non è eccessivamente bambinesca come look, purtroppo è anche l'unica che per ora funziona in maniera decente: installando un qualsiasi flavour di terze parti di Android ho assistito ad un decollo del telefono, come velocità, ma ad un comportamento assolutamente arbitrario dei led di notifica, delle luci inserite nel vetro, e dell'accensione del monitor sotto carica - che nel caso specifico provocava l'accensione di tutto il terminale.
Questo dipende semplicemente dal fatto che parecchie cose sono rilasciate, per questo terminale, senza alcuna specifica, quindi nessuno sa bene come vengano gestite alcune piccolezze. E quindi mi si accende lo schermo di notte. E quindi il led di notifica si accende quando vuole. E quindi battery drain. E quindi le luci all'interno della barra di vetro si comportano come delle renne irrequiete. Niente da fare, torno alla ROM Android di fabbrica. Ed è questa l'intenzione che mi ha portato a vivere un incubo di qualche ora: installando un'altra ROM devo aver sbagliato qualcosa (o forse no?) perché mi sono ritrovato con in mano un inutile pezzo di ferro. Esattamente: brick del telefono. Ho avuto la presenza di spirito di non lanciarlo dalla finestra, e ho capito che per fortuna era un soft-brick, ossia nulla di rotto ma molto di grave: dopo una rocambolesca esperienza al di fuori di qualsiasi manuale (e di qualsiasi forum di supporto) sono riuscito, ripristinando una vecchia immagine di sistema per far leggere almeno l'indispensabile a FlashTool, a ripristinare il telefono ad uno stato funzionante. Con un sospiro di sollievo, ho pensato a cosa i produttori potrebbero imparare dall'hacking.

Produttori, non rendete i vostri telefoni delle gabbie dorate. I nostri smartphone sono nostri: rendetecene libero l'uso e l'abuso. Evitate la fighetteria, oppure documentatela adeguatamente perché la community possa costruirci dei buoni hack sopra. Mi viene, per esempio, in mente il caso di BLN: un simpatico hack per supplire alla mancanza di led di notifica del Nexus S; cari produttori, rendete i vostri terminali semplici, senza la necessità di dover leggere dei manuali anche solo per sbloccarne il bootloader - o peggio, per installare un binario e basta.
Fatelo, e vi assicurerete quello per cui Google e Samsung vi stanno soffiando tutta la clientela: dei terminali su cui le persone possono mettere facilmente le mani, e una comunità che lavora attivamente sui vostri prodotti. Ormai lo sapete, i mercati sono conversazioni, e se è vero che sulla corta paga il marketing del device, sulla lunga distanza a pagare è il marketing della community di supporto. Perciò non fateci brancolare nel buio. E datemi 'sta documentazione delle lucette che stanno nel mio XPeria P. :D
Photos courtesy by harald walker - 1 & 2
16 Nov 2012
Quest'oggi, dopo aver sbrigato un po' di cose mi sono concesso un po' di tempo per aprire Popcorn Maker e cominciare a utilizzarlo, da zero, non sapendo minimamente nulla. Per chi non sapesse cos'è, lo dico in breve: è un video editor completamente HTML5, rilasciato da Mozilla sotto licenza open source, che consente di fare un numero di cose abbastanza alto e che, tra queste, incorpora una serie di funzionalità per mostrare secondo la modalità che noi decidiamo contenuti provenienti dai social media.
Sono rimasto sbalordito dalla qualità di quello che ne può venire fuori se si ha un po' di gusto estetico, ed effettivamente la cosa che più ha stuzzicato il sottoscritto (dato che mi occupo di editoria anche per lavoro) è stato il poter cominciare a curare contenuti ad un nuovo livello: quello del video making. Possiamo infatti combinare vari spezzoni di video provenienti da YouTube, intervallarli con schermate tutte nostre magari abbellite dall'immancabile strumento di testo, e includere nei video, magari in un sottopancia, dei tweet di alcuni utenti o degli hashtag specifici per mostrare magari informazioni contestuali.

Inoltre, oltre il classico YouTube, è possibile importare anche altre "scatole" come semplici video HTML5 (WebM o H264, immagino), ed anche da altre sorgenti. Google Maps, inoltre, consente l'embed in popup e altre forme per georeferenziare il contenuto in maniera abbastanza innovativa. Un poutpourri di cose interessanti insomma, che fanno di Popcorn Maker il primo video editor orientato alla content curation e completamente open source - nonché con un'interfaccia molto carina, cosa di cui ad esempio nel mondo Linux si sente (ultimamente meno) la mancanza.
A cosa penso quando dico "content curation"? Penso a Storify: per raccontare una storia, essere sul pezzo, porsi narratori in prima persona anche di qualcosa di grande, Popcorn Maker può essere un grande aiuto che sicuramente non va a rubare mercato al grande "aggregatore di pensieri sociali" che è Storify anzi: casomai può esserne un degno complemento, dove non importa più il contenuto singolo in sé, ma il mashup che più fonti possono creare.
Beh: il resto potete anche scoprirlo da soli.
Vi lascio solo un paio di note supplementari; se siete smanettoni come il sottoscritto e vi piace l'open source in tutte le sue sfaccettature, potete curiosare sul repository Git di Popcorn.js, la libreria su cui si basa il progetto, segnalare problemi e - magari - mandare anche qualche contributo. La seconda nota, è che da metallaro quale sono, mi fa molto piacere che attraverso Popcorn ci sia stato chi ha fatto storytelling alla Hellfest. Molto, molto bene. Brava Mozilla: questo è un notevole impegno e un grosso contributo, per il web, per l'ecosistema HTML5, per l'open source, e per i curatori di contenuti che da oggi hanno una preziosa freccia in più al loro arco.
09 Nov 2012
In questi ultimi giorni, oltre la carambola di cose che mi sono accadute ho ricevuto una email di cui sono stato veramente contento: era Michele Di Mauro, il CTO di wiMAN, che mi avvisava del fatto che al LeWeb di Parigi la startup, che ho già avuto modo di analizzare attraverso #opencore, faccia parte delle concorrenti finaliste.

È un grande traguardo, per una startup, quello di arrivare così avanti: a maggior ragione mi voglio far portatore anche io, un po', della loro bandiera per il fatto di essere stati prima di tutto ospiti in #opencore, ma soprattutto di aver speso abbondantemente le loro parole per difendere a spada tratta l'ecosistema open source senza il quale, a detta loro, non ci sarebbe stata nessuna wiMAN.
Quindi, ragazzi, andate così, complimenti, e soprattutto a questo punto cercate di portare a casa un bel risultato (di cui questa finale conquistata fa già parte in maniera consistente), perché state portando avanti una grande battaglia: quella per il primato italiano a LeWeb, quella per una startup forte sulle spalle dei giganti dell'open source, e soprattutto quella per il sud Italia; venire dalla Puglia, regione che adoro, significa riconoscere ad una compagnia la possibilità di fare ancora qualcosa, in maniera innovativa, e senza dover lasciare il Paese.
Auguri. ;)
03 Nov 2012
Se lancio una palla, da una parte, dall'altra per condurre un gioco secondo determinate regole ci deve essere qualcuno a raccoglierla, altrimenti il gesto perde di senso. È questo uno dei compiti degli open data: da una parte decentralizzare il potere, togliendolo dalle mani e dai cassetti di chi prima faceva del dato raw una merce di scambio per favori molto spesso personali. Il secondo compito, tuttavia, è quello come ho già detto in passato di stimolare gli hacker civici e la popolazione in generale a produrre valore aggiunto rispetto a questi dataset, attivando un meccanismo virtuoso che parte dal bit, e impatta sullo stile di vita della popolazione circostante.
Durante Green Open Data, poco prima della presentazione di TweetYourMEP, ci siamo imbattuti in qualcosa a cui onestamente io avevo già pensato, ma era qualcosa a cui non avevo osato dar sfogo: c'è stato chi l'ha fatto prima di me, chiedendo se non sia possibile stimolare le amministrazioni a produrre e liberare una serie di dataset "predefiniti", a beneficio degli hacker interessati all'uso di questi dati. Le risposte sono state molto vaghe, e la più soddisfacente in buona sostanza recitava: "partiamo con le cose facili, perché obbligare un'amministrazione a fare questo vuol dire complicare lo scenario, e mettere i bastoni tra le ruote a chi vuole semplicemente liberare i propri dati".

Penso conosciate tutti Yoda. È la figura che in Star Wars esemplifica ed incarna la saggezza suprema, colui che grazie all'esperienza di una vita molto lunga, ha accumulato un bagaglio culturale tale da fare sempre la scelta giusta. Ne L'Impero Colpisce Ancora, Yoda si esibisce in una meravigliosa considerazione di stampo quasi taoista: "Do, or do not. There's no try." - sostanzialmente possiamo usare questa citazione per un grosso numero di esempi. Gli open data fanno al caso nostro per raccogliere la riflessione di Yoda: dobbiamo fare. Lo spazio per i tentativi è rimasto a zero, in una condizione come quella attuale, e per quanto la tematica sia calcata con passo incerto dalle amministrazioni, dobbiamo ammettere che è tardi per far rimanere gli open data un tema di nicchia ma non solo: qualcosa a cui gli sviluppatori credono e non credono.
Ad oggi infatti il viaggio di uno sviluppatore all'interno del panorama open data è pieno di incertezza: speriamo di trovare quel dataset, e speriamo di trovare le informazioni che mi servono. O al contrario, che figa questa informazione, adesso ci faccio un'applicazione ma, attenzione, speriamo per allargare il mio raggio d'azione che altre amministrazioni rendano disponibili dati dello stesso tipo. È tutto molto difficoltoso, e come detto da alcuni non è interessante in termini di ore/uomo che qualcuno sviluppi applicazioni su un modello così frammentato dove regna il caos più totale. Uno dei rischi di questo approccio per esempio è che arrivi Alfonso Fuggetta, e venga a dire che tutto quello che stiamo costruendo non funziona. È vero: non funziona. Ma diciamo (e lo dico da sistemista Linux, quindi avrei tutto l'interesse di dire il contrario) che molto del problema risiede nella prassi. Attraverso servizi come Singly possiamo facilmente costruire API che reggano il confronto con quelle di database ben più professionali. Con dei dataset così frammentati tuttavia è necessario uniformare l'esperienza di fruizione da parte del programmatore, rendendogli più facile la vita. In che modo?
- Stilare - e c'è chi ci sta già provando - un elenco di dataset che presumibilmente dovrebbero trovarsi in ogni amministrazione, o quantomeno che sarebbe buona creanza avere
- Effettuare un packaging di questi dati in una maniera universale (JSON può essere un modo) e interoperabile
- Aprire il dato avendo cura di aderire ad uno standard di nomenclatura in modo da consentirne un facile riuso e l'inclusione in algoritmi di ricerca per la creazione di API efficaci
Una volta messi in pratica questi tre punti, avremo una mole di conoscenza fruibile dagli hacker civici in maniera uniforme, ed un parco di potenziali applicativi molto più d'impatto del "greppatore di pini andati a fuoco durante l'incendio a Rocca Cannuccia".
Bisogna smetterla di cercare scuse, e attivarsi affinché la rivoluzione del dato aperto trovi corrispondenza d'amorosi sensi (scusa Ugo per la citazione aggratise) proprio nella popolazione e presso ulteriori, potenziali hacker civici.
There's no try.
Image courtesy of Justin Grimes