19 Aug 2012
Questo post di Pasi Lallinaho, uno dei responsabili dell'estetica di XFCE in Xubuntu, mi ha fatto riflettere parecchio. Purtroppo ci troviamo di fronte a un momento a dir poco storico per l'ecosistema Linux in generale, specialmente riguardo chi è stato deluso, in maniera più o meno stordente, da GNOME 3.0 e successive release.
Purtroppo molti utenti, insoddisfatti, si sono trovati in pratica orfani di interfaccia grafica, e hanno dovuto ripiegare su delle alternative; per me non è stato un problema, dato che ho trovato in KDE un degno strumento per potenziare al massimo le mie energie lavorative. Il guaio è stato per tutti coloro che delusi un po' da tutto, hanno cercato di farsi star bene quello che è stato sempre un po' considerato il fratellastro di GNOME, ossia XFCE.

Certo, c'è una visione diversa del DE dietro, come dice Lallinaho nel suo post, ma secondo me emerge un'incoerenza di fondo tra quello che gli sviluppatori offrono agli utenti e quello che gli utenti utilizzano, soprattutto per lo spirito con cui si verifica la fruizione del codice e del software. XFCE rappresenta una visione dell'ambiente desktop non comparabile con quella di GNOME, è vero. Ma allo stesso tempo, come adattano gli utenti il loro flusso di lavoro per dare il massimo con XFCE? Lo trasformano in GNOME.
Io sono uno di quelli - non tanto con Xubuntu quanto con XFCE su Arch Linux, che utilizzo con soddisfazione sul netbook, ma quella soddisfazione, badiamo bene, dell'aver trovato un'alternativa plasmabile per divenire una pallida immagine di quello che era GNOME una volta. Ecco.

Date queste premesse quindi, mi duole affermare che la crescita di XFCE in termini di utenza non è dovuta ad altro che a questo, e se tornasse in campo una nuova versione ancora supportata di GNOME 2.X (ovviamente sviluppata e supportata anche dalle distro in maniera decente, quindi non cito MATE), tutti quei numeri conquistati in così poco tempo e con così poco sforzo svanirebbero "come lacrime nella pioggia" [cit.].
Quindi, caro Pasi, mi spiace svegliarti dal tuo sogno ad occhi aperti ma si: Xubuntu è un campo profughi. Che non aspettano altro che un rinnovato spirito d'iniziativa di GNOME - o si sono rassegnati all'invariabile numero minore di feature senza battere troppo ciglio.
Photo courtesy of Jordan Bracco, rub3nmv
15 Aug 2012
In questi giorni, mi sono concesso un aggiornamento sulla macchina di produzione e ho così potuto testare il nuovo KDE 4.9, dato che Arch Linux lo aveva appena inserito nei repository del ramo stabile. Per quanto riguarda l'aggiornamento in sé, non ho avuto problemi: tutto è andato come doveva andare senonché ho dovuto forzare l'installazione di un pacchetto, dato che in prima battuta Pacman aveva dato dei conflitti sui file. Riavviando, mi sono goduto la nuova release di KDE che, ormai, è diventato decisamente il mio desktop environment preferito.
La prima cosa che ho potuto notare, purtroppo, è che Dolphin è peggiorato; ovviamente, non fraintendetemi, sono solo state modificate delle piccolezze tra cui il tasto "smanetto" (non so quale sia la sua nomenclatura ufficiale) che dall'estrema destra è stato spostato sulla sinistra, allineato insieme agli altri pulsanti della toolbar. Non è necessariamente un male, beninteso, ma a me piaceva di più prima, e trovarmi questo pulsante improvvisamente lì quasi a stonare col resto mi puzza di work in progress, esattamente come lo erano nella precedente release alcune cose di cui parlerò.

L'altra cosa che ho potuto notare infatti è che il compositing adesso è nettamente migliorato in fluidità e reattività di tutto il sistema. La riscrittura di KWin in KDE 4.8 comincia a dare i suoi frutti, e la rivoluzione che era iniziata con la precedente release, la quale vedeva cambiare il framework per delegare il lavoro di shadowing e decorazione delle finestre interamente all'engine decorativo (nel mio caso Oxygen), ha visto il suo compimento in questa release, la quale dopo l'alleggerimento di KWin ha portato a un alleggerimento di tutto Oxygen. In questo modo sicuramente le prestazioni sono migliorate e l'infrastruttura di gestione delle finestre ha recuperato la sua modernità, nonché acquisito velocità.
Questo è l'aspetto fondamentale, almeno per me: tra l'altro ho visto, configurando il mio monitor esterno, che finalmente è stata eliminata la voce ridondante sui monitor multipli nel pannello di configurazione. Ottimo. Per quanto riguarda poi le piccolezze, Picchio ha scritto un ottimo post nello stile che lo contraddistingue (e che fa diventare matto me sul posto di lavoro) sul fatto che il team di KDE ci fa sentire continuamente come in alta marea rivedendo in ogni momento le scelte sui dettagli del DE.
Sinceramente, questa è la miglior release di KDE di sempre. Sono veramente contento di aver aggiornato, invito a farlo chi può, ed invito l'intero team di KDE a farci abituare ad alcuni elementi della UI, certi che nella prossima versione li ritroveremo al loro posto. Perché è questo il tipo di stabilità che ancora manca a questo fantastico progetto: una volta trovato questo tipo di equilibrio, per me sarà il Nerdvana. ;)
Se trovate refusi nel post segnalateli nei commenti o in mail a [email protected]: purtroppo mentre scrivevo in treno c'era una signora seduta di fianco a me che mi rincitrulliva di domande e racconti. Dedicate anche un minuto di odio a codesta persona e ricordate di bere tanta acqua che fa bene alla ritenzione idrica. Buon Ferragosto!
11 Aug 2012
Pochi giorni fa, è uscito un mio breve(issimo) pezzo su OneOpenSource, per annunciare la dipartita di GNOME dal leggendario CD1 di Debian GNU/Linux e l'entrata in scena di XFCE come ambiente desktop predefinito. Mi sono posto delle domande non tanto sulla scelta, che è avvenuta tagliando la testa al toro per semplici motivi di spazio dribblando qualsiasi ragione sociopsicopedagogicopolitica, quanto sul metodo. Io infatti sono una persona metodica, e nei progetti - soprattutto in quelli open source - mi piace confrontarmi con chi mi sta attorno. Dando una scorsa veloce al commit di tasksel incriminato della questione:
Sfortunatamente, Debian non ha una procedura ben definita per effettuare certe scelte, mentre certamente ci sono procedure ben definite per rivederle. Quindi, ho deciso di osare, e continuare la tradizione di prendere una decisione arbitraria per il desktop e tasksel in Debian.
Sono rimasto leggermente perplesso come avrete notato dal paragrafo superiore: sicuramente non mi aspettavo, date le premesse, una discussione assurda lunga centinaia di email, ma più guardo quel messaggio, più mi dico "DAFUQ", nel mio cervellino. Di seguito, un po' di ragioni pro e contro tutta questa storia.
Do-ocracy
Ammiro molto Stefano Zacchiroli per i suoi interventi su come dovrebbe essere gestito un progetto open source: personalmente penso che sia il miglior project leader che Debian abbia avuto da parecchio tempo (se non il migliore in assoluto), e la sua guida è illuminante per tutti i Debian developer che lo accompagnano in questo viaggio. Non essendoci una guideline, anziché bloccare il ciclo di sviluppo per una scemenza come questa uno sviluppatore zelante ha preferito decidere lui per tutti. Buono. Vorrei avere altrettanta gente del genere a disposizione, propositiva e senza timore di pomodori in faccia, anche per i miei progetti.

Il processo decisionale alla radice: ordine o entropia?
Non voglio accusare una comunità di developer che conosco a malapena di affidarsi ad un meccanismo puramente entropico per tutte le scelte di questo genere. Emerge però un problema dalla dichiarazione del bravo packager Joey Hess. Abbiamo dei meccanismi complessi per rivedere le scelte già fatte, ma non abbiamo un meccanismo nemmeno lontanamente sufficiente per la discussione di una decisione da prendere ex-novo.
Purtroppo, nonostante mi sia piaciuto il gesto mascolino e oltremodo virile, non è questo che mi aspetto dalla distribuzione universale. Ma è veramente questo quello che importa, in un progetto come Debian? Dall'altra parte della bilancia abbiamo un target di utenza che certamente può assemblare il proprio stack software nella maniera che meglio crede, adottando GNOME, KDE, o XFCE come meglio crede per i propri dispositivi.
Desktop environment: a Debian importa davvero?
Visto che il titolo del paragrafo è un po' poco chiaro, mi spiego meglio: sinora, il desktop environment predefinito è sempre stato una questione "intoccabile", se così vogliamo esprimere l'accaduto. La doppia licenza delle QT (storia passata ma sempre attuale da riscorrere) ha fatto si che Debian scegliesse GNOME come ambiente desktop predefinito e fornire KDE "a lato" nei repository, anche per essere più vicini al mindset di GNU e della Free Software Foundation. In questi giorni invece, tali implicazioni sono state messe in discussioni da una persona sola.
Una persona sola che ha cambiato un valore dentro tasksel per fare si che scelga XFCE come ambiente desktop predefinito in fase di installazione, dato che banalmente "non c'era spazio". E tutte le questioni sulla FSF? GNOME come baluardo dell'open source in senso letterale, che fine ha fatto? Certo, è vero anche che lato DE la situazione è cambiata, e certamente Debian non può considerare il desktop environment targato Red Hat come qualcosa di ancora affidabile per migliorare l'opinione pubblica di fronte agli occhi della FSF. In ogni caso è chiaro come Debian abbia abbandonato la via della scelta del DE predefinito inteso come posizione politica, optando, mi pare senza contrasti interni, per il pragmatismo che da qualche tempo a questa parte permea squisitamente il team di sviluppo di una delle mie distribuzioni Linux preferite.
Photo courtesy of Andrew McMillan
10 Aug 2012
Se arrivasse l'apocalisse zombie, probabilmente lo accoglierei con un calma, tanta musica dei Bloodbath, tanta dei Cynic, e una qualche arma al mio fianco, sempre che faccia in tempo ad accaparrarmene una. Ma a parte gli scherzi, voglio parlarvi di un'iniziativa editoriale che mi ha molto colpito: The Survival Diaries, di autori vari tra cui Elisa Gianola.
Mi sono imbattuto nei Sopravvissuti per caso: Elisa, mia amica su Facebook e conoscente nella vita reale, continuava a postare link con dei post provenienti da questo blog ormai categorizzato da me come "apocalisse zombie" - siccome a me piace lo splatter, ho deciso di aprire uno di questi link e vedere di che si trattava.
La storyline
Il meccanismo di lettura è semplice: si prosegue coi post, almeno leggendo il blog; ogni post pubblicato è il resoconto di qualcuno che racconta come procede l'apocalisse zombie, dall'inizio alle più tragiche conclusioni. Dopo un po' i personaggi iniziano a ripetersi, e via via si entra in sintonia con l'umore, con lo stile di scrittura di quella specifica persona. Ci sono personaggi simpatici, personaggi antipatici, ognuno con un punto in comune: portare la pelle a casa, perché lì in strada è pieno di non morti.
Così si solidarizza, ci si commuove, si va avanti insieme ai personaggi in un crescendo empatico che sebbene possa risultare a tratti ripetitivo, ha dalla sua il fatto che essendo più autori, e cambiando nel giro di pochi paragrafi la voce narrante, risulta bene o male sempre fresco, scorre molto e non annoia mai.
Cosa c'è dietro
Dietro The Survival Diaries c'è un sacco di gente: ne ho parlato più volte con Elisa, che è un po' la testa di questa torma di autori, ed è tutto molto libero: chi vuole invia il proprio contributo al blog. Se poi gli piace, ovviamente può continuare. Il gioco è semplice, è in prima persona, può andare avanti all'infinito, e la cosa veramente innovativa è stata secondo me non tanto la linea narrativa fortemente frammentata, che è comunque bella, ma il fatto che piano piano si sia creata questa sorta di consapevolezza per cui il blog è diventato un metablog, un ponte più che reale che unisce la nostra dimensione alla dimensione letteraria in un'esperienza meravigliosa. L'altro tratto veramente superbo che ho trovato, è che i personaggi, portati avanti dagli autori, tramite il blog si tengono in contatto, si parlano, post dopo post, e si fanno le raccomandazioni come una mamma premurosa che manda il figlio a scuola munito di troppo.

Il futuro dell'editoria: fruitore e scrittore nella stessa persona
Quello che mi ha affascinato di The Survival Diaries non è tanto il suo grosso successo per cui sta riscuotendo recensioni positive (tra cui questa) da Anobii ad iTunes fino ai blog, ma il modello editoriale che non presuppone assolutamente nulla e anzi considera il lettore come un potenziale scrittore (o effettivo), e lo scrittore come un lettore dell'opera che va man mano completandosi con il contributo di altri autori. È illuminante vedere iniziative editoriali guidate dal fine più che da altro, soprattutto al giorno d'oggi dove la collaboratività è fondamentale e facciamo un gran parlare di open source, anche se poi non lo applichiamo alle cose più semplici.
The Survival Diaries è un buon esempio di questo, un racconto che, guidato dagli autori stessi, prosegue all'insegna di quella do-ocracy che Stefano Zacchiroli ci ha prorompentemente insegnato quest'anno: vegono dati ai migliori gli strumenti per fare, ai volenterosi tutto ciò che serve per migliorare, e così si crea un meccanismo virtuoso divertente (vero Linus?) per cui andando via dalle mani del diretto creatore, il prodotto è diretta conseguenza di una serie di gesti e persone non strettamente collegate all'introito economico ma più alla crescita personale e - come detto - al divertimento.
Il modello editoriale: P2P e uno sguardo al futuro
Mi sembra che la struttura di The Survival Diaries sia ben definita: gli introiti servono a finanziare il progetto ed eventuali spin-off, e per ora ancora non ci sono state beghe e litigi all'interno della comunità (ma ci saranno: è fisiologico). È interessante osservare come cresce questa realtà che, giorno dopo giorno, ci dimostra che al di là del profitto personale, l'editoria peer to peer e un panorama dove il lettore, immedesimandosi, ha da subito tutti gli strumenti per trasformarsi in autore della storia, sono più che possibili.
Non resta che guardare l'orizzonte, pieno di zombie e di complicazioni per i nostri eroi: non parlo dei personaggi, di cui certamente seguirò le avventure, ma degli autori, che col tempo dovranno trovarsi a gestire moli di interazioni sempre più grandi; allora vedremo se il modello "diario" reggerà, fino a che punto qualcuno accetterà la necessaria perdita dell'autonomia narrativa, e come sarà gestito tutto questo dai "capi" che necessariamente la community di autori dovrà eleggere per far si che ci sia almeno un pallido coordinamento.
Intanto, buona fortuna ragazzi. Massacratene anche per me.
08 Aug 2012
Chiedo perdono ai gentili lettori ma ancora per un po', nonostante la mia voglia di scrivere su queste pagine, starò lontano dal blog. Si sta facendo sentire quel fastidio di fare il lavoro che è anche la tua passione; a volte magari le cose necessitano di essere scisse.

In ogni caso, tornerò a breve con degli spunti che, almeno per me, daranno parecchio da riflettere a chi si occupa di new media e open source, come sempre. Intanto, buona giornata e buon lavoro. A tutti noi.
Photo coutesy of Nathan Makan