10 Dec 2016
Ho pensato molto a cosa scrivere riguardo Pebble, e potrebbe sembrare che io stia facendo il melodrammatico. I fatti da prendere in considerazione riguardo questa impressione sono due:
- Sono (o ero, per meglio dire) in attesa del mio Pebble Time 2, e adesso non avrò il mio regalo di Natale;
- Pebble come azienda mi piaceva molto, veramente.

Prendo a prestito le parole di John Gruber:
Rough ending. I love the idea of a plucky startup creating their own hardware platform […]
Poco da aggiungere: secondo me Pebble è stata l’unica azienda, l’unico gruppo di persone in grado di proporre qualcosa di veramente innovativo ad un prezzo tutto sommato contenuto, usando una tecnologia totalmente inaspettata per uno scopo incredibilmente nuovo.
I prodotti Pebble non piacevano a tutti, e come azienda Pebble non ha mai avuto l’ardire di fare un prodotto che piacesse a tutti, ma semplicemente di offrire il suo meglio alla sua nicchia di mercato, che probabilmente non si è rivelata profittevole come da prime analisi. A me, però, quegli orologi piacevano un casino tant’è che ne ho ancora uno al polso, indeciso su cosa comprare come prossima fermata nel mondo delle “cose da polso”.
La fine del wearable da polso?
Jawbone alla canna del gas, Pebble in questo stato, e quella di Fitbit la possiamo considerare un’acquisizione d’emergenza nel tentativo di assorbire un fattore magico per dotare di appeal i suoi prodotti, che presso di me non arrivano proprio ad essere considerati. Ne parlavamo l’altra sera con Giorgio: siamo sicuri che sia proprio un bel momento per i wearable?
Sinceramente è stata una “rivoluzione”, e specifico le virgolette, in cui ho creduto molto ma che non ha prodotto moltissime cose buone. L’unica che mi ha veramente colpito è stata proprio Pebble.

E adesso?
Ho questa domanda in testa da parecchio, ed è per questo che sto scrivendo questo post. Adesso che si fa? Sicuramente inizierò ad osservare insistentemente Fitbit aspettando che tiri fuori qualcosa di interessante, e questi signori se hanno a cuore la reputazione del proprio brand, dovrebbero pensare anche a creare qualcosa che soddisfi gli acquirenti di Pebble, che nel tempo si sono mostrati una nicchia in grado di far sentire la propria voce.
Personalmente penso che se Pebble ha fallito così clamorosamente con un prodotto che io credevo in grado di vincere a mani basse, c’è il più che ragionevole dubbio non solo che Fitbit non produca qualcosa che mi interessa, ma che addirittura un prodotto di mio gusto non venga mai più fuori.
Che io debba rassegnarmi ad utilizzare il mio Pebble Time, finché dura. E che prima o poi debba tornare alle care, vecchie, brutte, ingombranti notifiche.
Photos courtesy of Howard Lawrence B, Tero Mononen
The ones who literally see things differently because of missing proprietary fonts.
Non credo che esista una frase in italiano per rendere il significato inglese dell’espressione “this hit me so hard” senza creare uno stupro linguistico. La prendo a prestito.
Mentre io imparavo a pistolare con ReactJS, a quanto pare in Microsoft hanno preso la questione web development molto seriamente. Attraverso il loro toolkit grafico è possibile costruire in poco tempo frontend integrati meravigliosamente con la loro piattaforma di applicazioni (che personalmente non uso, ma…).
Mettendo da parte per un secondo il discorso Office VS resto del mondo, è interessante vedere come Microsoft abbia deciso di contrastare la politica dei competitor fortemente basata sull’accentramento con una politica di distribuzione di asset per la creazione di esperienze integrate finalizzate all’estensione delle sue piattaforme.
Prossimamente, Microsoft reginetta dell’integrazione cross-platform?
Over past few months, we’ve been working on CentOS Community Container Pipeline which aims to help developers focus on what they love doing most – write awesome code – and sysadmins have an insight into the image by providing metadata about it! The project code is hosted at Github.com since its inception.
Da CentOS questa utilissima novità: un servizio che fornisce metadati a gogo rispetto ai container. La prossima cosa che personalmente integrerei al riguardo è, oltre la fornitura dei metadati classici rispetto ai pacchetti da aggiornare, e cosa c’è installato, anche la possibilità di scannerizzare un container in cerca di vulnerabilità note rispetto a un database di CVE.
È leggermente fuori scope, ma sarebbe interessante.
Alex Payne ha scritto una cosa di recente che mi ha veramente catturato, più che altro perché è la stessa cosa - seppur posta in termini diversi - che penso da un po’. Forse siamo pronti per una nuova generazione di sistemi operativi? I sistemi operativi moderni fanno già tutto quello di cui abbiamo bisogno? Offrono veramente a uno sviluppatore tutto quello che lui possa desiderare?
My friend and I then started sketching a wholesale rethinking of professional computing in the form of an integrated hardware and software platform. We quickly became obsessed. We tore through journal articles and whitepapers on topics like heterogenous computing. My friend started designing a motherboard. We sourced components. We wrote the beginnings of an operating system (for the trainspotters: in x86_64 assembly and Rust). We worked on the system’s concepts up and down the stack, from UI to networking to a new toolchain.
E le conclusioni sono (circa) quelle che auspicavo io:
After what was essentially an involved thought experiment, I remain convinced that pro computing is up for grabs. We’re in a moment where comparatively cheap hardware is underutilized by aging, bloated operating systems and software.
Il tutto potrebbe avere risvolti non banali.