Alessio Biancalana Grab The Blaster di Alessio Biancalana

Recensione: The Five Dysfunctions Of A Team, di Patrick Lencioni

Le cinque disfunzioni di un team

Tempo fa, il mio amico Marco mi ha inviato un libro dicendo che lo avrei trovato illuminante. Consentitemi uno spoiler: lo è stato. Quando ho iniziato a leggere The Five Dysfunctions Of A Team, di Patrick Lencioni, non avrei mai immaginato che nonostante la semplicità dei concetti esposti l’avrei trovato così “eye-opening”. Una delle cose che mi hanno colpito, per esempio, è stato il fatto che il paradigma che viene esposto funzioni a tutti i livelli, senza distinzioni, che si tratti di un team di exec che fa del prendere decisioni ad alto livello il proprio mestiere, o che si tratti di un team di sviluppatori.

O ancora, che si tratti di un team con competenze orizzontali.

Esattamente come The Phoenix Project, che ho letto ma che non ho più pensato di recensire (mannaggia a me), i teoremi vengono esposti in una forma narrativa piuttosto gradevole: la storia, piuttosto lineare, racconta di un team di exec che, posto di fronte a nuove sfide e sostanzialmente una compagnia che non riesce più a carburare, deve reagire e riassestarsi. Chiaramente è tutto posto in una chiave piuttosto didascalica, ma diciamo che il punto non è tanto quello di una bella storia, quanto di mostrare le criticità di un team disfunzionale e come superarle.

Le cinque disfunzioni in breve

In ordine di importanza, lungo il racconto Lencioni fa descrivere alla nuova “capoccia” del suo artificioso team di exec i principi disfunzionali che affliggono un team malandato, suddividendoli in delle lezioni essenziali. Questi sono:

  • Assenza di fiducia;
  • Armonia artificiale e assenza di conflitto;
  • Mancato coinvolgimento delle persone nelle decisioni e mancanza di impegno;
  • Mancanza di iniziativa dovuta alla mancanza di responsabilità;
  • Focus eccessivo sull’ambito personale tralasciando il team.

Le soluzioni che vengono proposte sono molteplici, ma sostanzialmente il punto dell’opera è quello di battere sempre sugli stessi pilastri per fissarli in maniera indelebile. Lencioni rende in maniera clamorosa tutto questo, mostrando anche chiaramente la difficoltà delle persone coinvolte nell’accettare un altro tipo di mindset rispetto a quello a cui sono abituate.

Le soluzioni a queste cinque disfunzioni sono cinque pilastri, secondo l’autore, che dovrebbero portare un team a performare molto meglio e in maniera estremamente più fluida. In ordine, rispetto ai difetti elencati sopra:

  • Ristabilire la fiducia, il rispetto, la tolleranza all’interno del team, soprattutto mettendo in evidenza le vulnerabilità di ognuno cercando di far passare il concetto per cui ogni componente del team ha bisogno dell’aiuto degli altri per massimizzare la sua personale possibilità di successo;
  • Creare spazio per del conflitto costruttivo. Tantissimi tizi americani sono estremamente fan di quello che viene chiamato “radical candor”. Io penso che “radical candor” sia un modo socialmente accettato di fare gli stronzi, quindi non è che ci creda più di tanto: i feedback vanno anche saputi consegnare al destinatario. Viceversa, è assolutamente vero che tanti leader osteggiano il dialogo all’interno di un team. Bisogna ricordarsi però che dopo la mutua fiducia il dialogo è la risorsa più importante per il lavoro di gruppo.
  • Coinvolgere le persone nelle decisioni crea un clima migliore, e favorisce l’impegno che tutta una squadra si può prendere rispetto a un traguardo. Volete un esempio? Provate a chiedere, in un team Scrum, a tutti i membri del team se pensano che il planning che viene fatto sia ragionevole. Di solito, nella mia esperienza, domandare questo alla fine di una sessione di planning crea un grosso senso di responsabilità condiviso. Non fatelo, e un domani vi troverete un team che sta in silenzio, vi lascia in balia dell’overcommitment, e buca gli sprint. Matematico.
  • Rendere le persone responsabili delle proprie vittorie e dei propri errori favorisce azioni immediate per raggiungere il successo o evitare i burroni. Pensate che quello che ho appena scritto sia banale? Pensateci di nuovo. Una vostra vittoria è una vostra vittoria, o è una vittoria del vostro capo? Ve lo lascio come quesito da risolvere a casa. Potete mandarmi la risposta via mail. (Non sto scherzando: [email protected] se volete)
  • Porre il focus costantemente sui traguardi del team e fare sì che il raggiungimento di questi si tramuti in crescita personale è la più grande delle sfide. Ma vale comunque la pena affrontarla.

Possono sembrare consigli da frasi dei cioccolatini o da biscotti della fortuna, eppure a me hanno aiutato recentemente a rimettere un sacco di cose in prospettiva, a indirizzare i miei manager nella giusta direzione ma soprattutto a capire i miei, di errori. Spero che leggiate questo libro e ne traiate gli stessi insegnamenti che ne ho tratto io, o anche di più: scrivetemi se trovate che abbia mancato dei punti. :-)

Recensione: Chaos Monkeys, di Antonio García Martínez

Chaos Monkeys: recensione

Quando ho iniziato a leggere Chaos Monkeys, l’ho fatto consapevole del fatto che l’autore è un tizio estremamente controverso, il quale ha avuto notevoli conseguenze spiacevoli indietro dal suo libro anziché “la gloria” che un autore di un libro del genere, per come si pone in partenza, meriterebbe. In che senso, mi chiederete voi?

Vado a rispondere. È abbastanza pacifico intuire entro qualche capitolo dall’inizio che quella che è una storia di “oscena fortuna e fallimento casuale nella Silicon Valley” è in realtà il libro verità sulla Valley che chiunque dovrebbe leggere, almeno nella mente di Antonio García Martínez. È abbastanza scontato, di contro, che chiaramente alcuni passaggi siano esagerati e alcuni altri non siano credibili. L’idea che mi sono fatto tuttavia, e lo anticipo qui, è che nonostante parte del libro sia assolutamente squisitamente romanzata Chaos Monkeys sia davvero il libro verità sulla Silicon Valley, un posto dove ti basta un packaging carino per due righe di codice carine per prendere milioni su milioni di investimenti. E ovviamente, fare poi exit1 tramite acquihire2 lasciando a qualcun altro il padulo (sì, proprio lui) della gestione di una scatola il più delle volte contenente mota in quantità almeno eguale agli asset di valore della società.

La trama grossomodo è proprio questa, e si divide in tre atti:

  • Il primo, in cui l’autore lavora per Goldman-Sachs ma si accorge di poter avere di più e si sposta in Silicon Valley;
  • Il secondo, in cui l’autore fonda AdGrok, una startup che sostanzialmente fa un prodotto di gestione pubblicitaria per Google Ads (al secolo AdWords). Nota personale: il fatto che io abbia lavorato nel settore non ha fatto altro che aumentare il mio legame con questa parte della storia;
  • Il terzo, in cui la startup di Antonio viene acquisita da Twitter (per acquihire, tra l’altro) ma lui con un sofisticato sistema di specchi e di leve riesce a tirarsi fuori dall’accordo e si fa assumere da Facebook come Product Owner nel ramo delle campagne pubblicitarie3, esperienza che si rivela meno rosea del previsto.

Personaggi discutibili e modi di fare opinabili

La cosa che ho adorato di Chaos Monkeys è innanzi tutto una estrema demistificazione del modo di lavorare di Facebook, la cui company culture sarà sicuramente cambiata negli anni, ma di sicuro l’autore sa mettere a nudo il modo tipicamente nordamericano di condurre il business. Appena c’è una difficoltà, testa nella sabbia, identificazione del responsabile, licenziamento e via. Tutti puliti.

È meraviglioso leggere come la cultura di Facebook sia solo in parte legata alla parola magica “HACK” impressa all’ingresso dell’edificio principale della sede di Menlo Park tanto quanto nelle menti dei dipendenti, e invece almeno in maniera uguale sia connessa a un intricatissimo gioco di poteri e politiche che farebbe impallidire qualsiasi personaggio di House of Cards, The West Wing, o Game of Thrones. Andando più indietro, ho apprezzato tantissimo l’onestà nella condivisione dei risultati enormi raggiunti grazie a quella che in termini più lusinghieri viene definita “hustle culture”, e che qualsiasi persona di buonsenso chiama invece con due locuzioni molto precise che possiamo trovare anche nel nostro codice penale: circonvenzione d’incapace e truffa aggravata.

Apprezzo enormemente l’autore e la sua visione di sé come antieroe estremamente negativo all’interno della propria storia, una persona che non si ammanta di nulla se non dei propri ricavi, riuscendo così non solo a passarla liscia ai miei occhi, ma persino a suscitarmi una certa qual simpatia.

Le polemiche

Certamente non è un libro scritto nel rispetto delle minoranze o della diversità di genere. Lungo la lettura si incontrano sovente digressioni su quanto siano belle le receptionist di questo o quel venture capitalist, oppure quanto sia “geneticamente dotata” la ex compagna di Martínez. Capisco chi si è sentito in dovere di firmare una petizione per far licenziare l’autore dalla sua posizione in Apple, ma io personalmente ho apprezzato l’onestà. Oltre questo, fatevelo dire: è un libro scritto per generare questo tipo di reazione.

Quindi chiaramente se la prima reazione di fronte a certi stereotipi è l’indignazione, beh, ci state cascando con tutte le scarpe, e Martínez sta dimostrando ancora una volta di essere più intelligente di voi. Immaginatevelo nella sua poltrona al centro del suo flat a guardarvi e ridere di voi, così come ride di tutta la Valley.

Finalino

Always Be Hustlin’. Uno dei principi cardine di Uber, che non ho mai apprezzato. La hustle culture è qualcosa di veramente tremendo, che personalmente tendo a rifiutare. Nonostante questo, la storia di Antonio García Martínez mi ha catturato, svelto antieroe della Valley intento venticinque ore al giorno a lavorare per il proprio tornaconto raccontandosi in maniera romanzata, sì, ma mai stridente. Se volete farvi un’idea più precisa di come funzionano le startup della Silicon Valley e come ci si muove realmente in quell’ambiente, sicuramente Chaos Monkeys non può mancare nelle vostre librerie.

Sfortunatamente, non esiste una traduzione italiana.

  1. La exit si verifica quando un fondatore o generalmente un imprenditore “esce” dalla sua creatura con dei soldi. Può accadere tramite liquidazione del socio, tramite acquisizione, in moltissimi modi insomma. Io sono un programmatore, quindi ne posso parlare solo sommariamente: per sapere meglio cos’è una exit e come farne una di successo, chiedetelo a un amico commercialista. O se volete farvi due risate, tutti abbiamo un amico CEO presso se stesso. Chiedetelo a lui! Vi divertiranno le risposte. 

  2. Generalmente l’acquihire si verifica quando una società più grande acquisisce una società più piccola principalmente per l’expertise del team di sviluppo. È come un gigantesco e superveloce processo di reclutamento, dove vengono assunte cinquanta, cento persone invece che una alla volta. Il prodotto su cui l’azienda più piccola lavorava viene di solito gradualmente strangolato, mentre la società più grande mette il team a lavorare altrove. 

  3. Anche qui, il fatto che io abbia un’esperienza lavorativa in quel dominio non ha fatto altro che aumentare la mia personale simpatia nei confronti di Martínez. 

Un pezzo sul lavorare gratis a cui non riuscivo a trovare un titolo

Bazzicando Livello Segreto mi è saltato all’occhio un post in cui Lorenzo pubblicizzava il suo ultimo articolo riguardo il lavorare gratis e la narrativa del lavoro pagato non in moneta sonante, che aiuta a pagare le bollette, ma in esperienza. Un po’ come quando un po’ di tempo fa la gente si sognava di chiedere cose assurde pagando “in visibilità”.

Lungi da me dare ancora visibilità a gente che di scempiaggini ne ha dette già troppe: in ogni caso è ormai ricorrente ogni tot mesi che arrivi qualche benpensante a sciorinare la sua rispetto al fatto che i giovani ultimamente non hanno voglia di fare nulla, non hanno minimamente intenzione di investire sul proprio futuro tanto che, incredibile (!), desiderano persino uno stipendio per mangiare qualcosa la sera.

È un discorso che sia io che Lorenzo, appunto, abbiamo visto e sentito spesso. Si applica alla cucina di un ristorante stellato, si applica alla redazione di un giornale famoso, si applica persino alle big corp americane di cui tutti i giorni utilizziamo il software: ho visto coi miei occhi aziende di cui non immaginereste mai questo atteggiamento provare a negoziare un salario relativamente basso solo perché “heyyyy, ma è la Silicon Valley babe, lo sai quanto vale un’esperienza qui?” - ebbene, è vero che le esperienze non sono tutte uguali e alcune contano più di altre, ma è altrettanto vero che le hard skill hanno un costo materiale e oggettivo sul mercato. E soprattutto, rispetto a quando magari un sessantenne o un cinquantenne di oggi poteva permettersi di rinunciare a una cena fuori in favore “dell’esperienza”, per quanto sbagliato in generale sia, l’inflazione galoppante ci ha portati a un punto di non ritorno dove il mercato del lavoro ci vede necessariamente col coltello tra i denti.

Scusate, datori di lavoro!

Investire: quando si può

C’è un mondo da dire riguardo il “lavorare per l’esperienza”, ma Lorenzo ha riassunto il tutto abbastanza bene:

L’altra volta dicevamo che a volte non sei il più bravo, il più veloce o il più preciso, sei quello che ha resistito di più, che è rimasto e si è fatto trovare al momento giusto e al posto giusto col bagaglio di competenze giuste. Ecco, il sistema prevede che per essere quella persona tu possa permetterti di resistere, o di essere così ricco e ben inserito che la tua eventuale bravura può essere notata grazie alle giuste conoscenze e alla serenità di scrivere senza dover pensare ai sacrifici fatti dalla vostra famiglia.

E per resistere devi poter non pagare molte spese prima le cose inizino a girare, devi poterti magari permettere anche dei corsi di comunicazione che oltre a formarti hanno il grande pregio di farti iniziare a frequentare ambienti in cui, se vali qualcosa, magari ti notano, e quei corsi costano.

Insomma, quando sentiamo questi ragionamenti è il segnale numero zero che siamo di fronte a una persona col bias del sopravvissuto fin sopra le orecchie. E non solo.

Come investire su se stessi nel software engineering

Se Lorenzo ci dice abbastanza schiettamente come investire su di sé nel mondo del giornalismo:

Volete scrivere gratis per fare esperienza e perché altrimenti non vi potete costruire un portfolio? Benissimo, apritevi un blog, fatelo con più persone e fondate un magazine come N3rdcore ma per dio se qualcuno mette dei banner e lucra sui vostri click non regalategli il vostro tempo.

Investire su di sé nel mondo del software engineering è qualcosa che va di pari passo, e anche se sembra scontato non lo è: non abbiamo alcun bisogno di essere sfruttati da aziende dimora di incompetenti per ottenere visibilità ed esperienza costruendo un sito brutto, avendo magari a che fare con stakeholder ancora più incompetenti. L’ecosistema open source ci permette di cominciare a farci il bagno con tutte le pratiche che potenzialmente faranno parte del nostro futuro lavorativo, e senza che nessun manager con la frusta stia lì a guardare quante ore sottopagate stiamo seduti su una sedia scadente in un ufficio in cui dobbiamo andare per forza perché - hey - mica vorrai lavorare da remoto.

Come al solito ricordiamo che i contributi a un progetto open source possono essere:

  • Traduzioni;
  • Documentazione;
  • Segnalazione bug;
  • Pacchettizzazione;
  • Triage (ovvero una persona si mette lì a capire a capo chino quale bug è più importante di un altro);
  • Design;
  • Solo in ultima istanza: codice.

L’aspetto migliore? Presto detto: un level up della nostra carriera e delle leve negoziali di cui disponiamo, senza nemmeno aver iniziato a lavorare. Con la libertà di poter decidere noi l’investimento che possiamo fare su noi stessi. Di solito quello che succede con un progetto tradizionale commerciale di tipo tossico è un approccio all-or-nothing, ovvero se non puoi dedicare otto ore al giorno a un lavoro sottopagato non ottieni né la paga (magra), né l’esperienza (scadente. Fidatevi: scadente).

In un’organizzazione dove il progetto è aperto e noi siamo dei contributor individuali occasionali, siamo noi a controllare il quantitativo di tempo che dedichiamo al progetto. Se abbiamo un esame all’università, possiamo prenderci una pausa. Se abbiamo bisogno di una giornata libera, nessuno ci correrà dietro (e vorrei vedere: è volontariato). Il nostro curriculum però ne uscirà smagliante.

A differenza di quelli che hanno lavorato gratis per la web agency di quartiere.

2022, eccoci qua

È stato un anno particolare. Finisco a dirlo tutti gli anni, per un motivo o per l’altro, e se da un lato mi ci impegno è anche vero che nell’ultimo paio di post di questo tipo c’era una pandemia a rafforzare il concetto. Tuttavia, nonostante la particolarità diffusa di un anno vissuto ancora sotto il giogo del COVID da parte un po’ di tutti, posso dire che comunque ho trovato il modo di vivere quest’anno al massimo. Purtroppo questo a tratti ha significato mettere un po’ da parte il blog perché semplicemente ero indirizzato altrove. Vorrei che non fosse così, ma la realtà dei fatti è che in questo momento ho meno carburante di quello che vorrei.

È stato un anno in cui, come Andrea, ho scritto meno, e uno dei motivi è che ho letto di più: ho ricominciato a leggere voracemente e con passione, dal fantasy ai manuali tecnici. Ricominciando a leggere in questo modo, insieme a Agnese abbiamo deciso di farci un regalo: cominciare un corso di scrittura creativa, partendo dalle basi, cui poi ha fatto seguito un corso di scrittura avanzata. Ho riscoperto qualcosa su di me all’età di 31 anni, e vi auguro di entrare nel 2022 con questo, la consapevolezza che non importa l’età anagrafica o quanto siate radicati nella situazione attuale: c’è sempre spazio di manovra per nuove avventure.

E parlando di nuove avventure, il secondo motivo per cui quest’anno ho scritto meno è che ho cambiato due lavori: dal comfort di Hootsuite all’esperienza dolceamara di Prima.it, alla grandezza della sfida che mi si è posta con SUSE. Mai più di quest’anno mi è stato chiaro che per scollinare al livello successivo a volte è necessario sparigliare tutte le carte, anche nei modi più impensati. Dice come ti trovi dopo quattro mesi? È presto per dirlo, ma non è nemmeno mai tardi per esporsi troppo: mi sto divertendo tantissimo.

Tornando al leggere di più, è stato un anno in cui mi sono reso conto delle mie mancanze in termini di letteratura tecnica: ho trovato il modo di finire The Pragmatic Programmer, rileggere manuali e storie già passati sotto ai miei occhi a cui non avevo dato la giusta importanza, e perché no, anche qualche bella storia di prodotto, come The Upstarts o Chaos Monkeys (che è più un’autobiografia, ma non ci formalizziamo).

È stato un anno in cui ho smesso di scrivere perché ero soverchiato da chi intorno a me scopriva la penna per la prima volta, reale o virtuale che sia: siamo stati inondati di blog travestiti da newsletter di dubbio gusto, di podcast fatti col microfonaccio, di così tanta informazione frivola a costo zero che ci siamo dimenticati che faccia abbia uno scritto di qualità. E ho imparato da qualcuno molto vicino a me che quando sei circondato da un branco di persone che urlano, la migliore strategia di fuga è il silenzio.

È stato un anno in cui ho scritto poco perché, scusate se è poco, io e Agnese abbiamo comprato la nostra prima casa, e ogni giorno viverci dentro è una sensazione che non credevo di poter provare mai nella vita. Da quando Casa Blaster non è più un posto in affitto, devo ammettere di sentirmi meglio, non riguardo le mie finanze, più riguardo il fatto di avere un posto dove stare, no matter what.

È stato un anno in cui ho scritto di meno, perché a un certo punto ho deciso che forse va bene così, che alla fine prendersi un attimo di respiro ci stava, in modo da tornare con nuovi spunti nèrdici in seguito. Probabilmente sentirete ancora parlare di Elixir (non mollo), ma anche di Rust e di TypeScript.

Buon inizio di 2022 a tutti, amici miei :-)

Happy family

Ho comprato un portatile nuovo, ovvero come ho configurato Arch Linux sul mio Thinkpad X1 Extreme

Il mio MacBook 13 ormai anche per i compiti più banali risultava un po’ lento e bolso, quindi avevo iniziato ad accarezzare da tempo l’idea di cambiare non solo portatile, ma anche direttamente sistema operativo. Visto che l’esperienza del ritorno a Linux è stata più che proficua (e non ho nemmeno raccontato tutto quello che c’è stato nel frattempo) ormai Mac OS era lontanissimo dall’uso anche più banale che potessi fare di un computer1, quindi ho deciso di fare una scelta altrettando costosa (forse?) ma diametralmente opposta rispetto a quello che i Mac sono adesso, almeno fino a quest’ultima generazione.

Dato che avevo avuto un Thinkpad T14 aziendale con cui mi ero trovato da dio, e dato che SUSE mi ha equipaggiato con una workstation serie P che sta veramente facendo il suo, mi sono voluto concedere un altro Thinkpad per allargare la collezione, per soddisfare il mio ego nerdico e semplicemente perché ne volevo uno personale che non pesasse tantissimo.

Facendo qualche compromesso ho trovato su eBay un Thinkpad X1 Extreme di prima generazione, messo all’asta in maniera praticamente fallimentare, tant’è che me lo sono portato a casa per niente, soprattutto considerati i 64GB di RAM che si porta in pancia. Il consiglio di prendere un usato in buono stato su eBay l’ho mutuato da un video di Riccardo Palombo, che ringrazio per la dritta indiretta.

Il setup è veramente impressionante, 64 giga di RAM a parte (che comunque mi serviranno ere geologiche per saturare, nonché svariate macchine virtuali), lo schermo 4K è una goduria, così come tutto il comparto costruttivo della macchina e la CPU a 4GHz e 3, purtroppo Intel. Il trackpad, venendo da anni di Macbook, non è niente di che ma almeno supporta lo scrolling col doppio dito e due differenti tipi di click (destro e sinistro); per tutto il resto in realtà se giochiamo un po’ con la configurazione del sistema operativo possiamo fare anche di meglio.

Dico così perché in realtà rispetto al mio post di tantissimo tempo fa (ormai) sono passato ad una configurazione con i3 come window manager sul mio fisso. Questo permette tantissima flessibilità, specie per gli utenti più smaliziati. Workspace programmabili, shortcut per ogni gusto, il tiling che - devo dire - per un ossessivo compulsivo è “never go back”. E infatti.

Purtroppo i3 però litiga un po’ con i display ad alta risoluzione, quindi con qualche pacca in più sono riuscito ad approntare un setup con Sway come gestore di finestre e Wayland come server grafico. Il motivo è che in questo modo non ho bisogno di configurare il fattore di scaling per le applicazioni, ma ci pensa direttamente Sway configurando il fractional scaling direttamente a livello di server grafico.

Il risultato

Alla fine della fiera il risultato di un paio di giorni di deep dive (tra cui la lettura di pezzi di codice di Sway, poi leggerete perché) è il seguente:

Arch Linux 4k

Arch Linux 4k - floating mode

  • Sistema operativo: Arch Linux (ancora una volta con systemd-boot come bootloader)
  • Login manager: SDDM
  • Window manager: Sway
  • Statusbar: Waybar
  • Terminale: Kitty
  • Demone per le notifiche: Mako
  • Hotkey daemon aggiuntivo: Hawck

Bestemmie varie ed eventuali, ma soprattutto sonore

Due cose mi stanno facendo impazzire di questo laptop:

  • Nel mio viaggio ho incontrato un bug di Sway: il resume dalla sospensione ha qualche imperfezione per cui si incastra il riconoscimento degli input, che si traduce in un più pratico “niente tastiera”. Mi sono promesso di aprire una issue direttamente sul repo di Sway, ma per il momento mi sono scritto una unit systemd che post-sleep fa il restart del demone per gli hotkey che sto usando. Siccome Hawck poi cattura tutti i metodi di input a un livello molto basso, funziona. Non funziona sempre sempre, ma quanto basta per non farmi uscire di testa e per rientrare nei miei criteri di affidabilità.
  • La tastiera ha veramente qualcosa che non va, nel senso che performa molto bene ma il precedente proprietario ha pensato bene di farci qualche rituale satanico per cui ha ricoperto i tasti con dei, boh, sovratasti?2 Fatto sta che la retroilluminazione perde la metà dell’efficacia per via delle nuove lettere che si vanno a sovrapporre a quelle trasparenti soffocando la luce. Probabilmente cambierò la tastiera presto, anche perché mi sembra che la spacebar faccia un po’ fatica.

Escluse queste due piccolezze, in realtà questo è davvero il laptop migliore che abbia mai avuto, sufficientemente bello da poterlo portare in giro come un pezzo d’orgoglio nerd e sufficientemente robusto in termini di specifiche da poterci lavorare dappertutto senza dovermi preoccupare di niente. La batteria non è particolarmente durevole, ma non mi aspettavo altro da un laptop costruito per le performance scevre da qualsiasi compromesso.

E devo dire che, per ora, questo Thinkpad mantiene ogni promessa.

  1. Per una serie di ragioni, la più banale - e sembrerà una cosa da poser, lo so - è che non riesco più a usare un computer che non sia dotato di un tiling window manager, perché ho mappato nella mia testa quei concetti così tanto e così a fondo che non me ne riesco più a liberare. Lo so che per Mac OS esiste Yabai, ma a quel punto che senso ha limitarsi con una macchina Mac OS quando hai la potenza a portata di dito? 

  2. Per cambiare la mappatura della tastiera da una nordic a una roba che sembra US international ma in realtà non lo è. Veramente la cosa peggiore che si possa fare alla tastiera di un Thinkpad. 

Member of

Previous Random Next