26 Sep 2018

Nella rete le notizie corrono veloci, e ormai tutti sanno che Kevin Systrom e Mike Krieger, i due fondatori di Instagram, stanno lasciando la società. Ma questo perché accade? Il New York Times ne parla in maniera abbastanza nebulosa, ed è pur vero che segnali più forti non farebbero bene né ai ragazzi né alla società stessa:
Mr. Systrom and Mr. Krieger did not give a reason for stepping down, according to the people, but said they planned to take time off after leaving Instagram. Mr. Systrom, 34, and Mr. Krieger, 32, have known each other since 2010, when they met and transformed a software project built by Mr. Systrom into what eventually became Instagram, which now has more than one billion users.
Biasimarli proprio non posso. Questi due ragazzi hanno costruito un’applicazione in una notte, che consentisse di scattare delle foto in formato 1:1, ritoccarle per dar loro un effetto vintage (analogico), e condividerle su una timeline. Nessuno di loro (e nessuno in generale) ha mai voluto diventarci ricco, né immaginava che questo piccolo prototipo portasse a uno dei più grandi business del nostro tempo.
Nessuno di loro immaginava di aver dato il via a quella che nel bene o nel male possiamo definire come una rivoluzione culturale ed estetica, che lega ancor più indissolubilmente un essere umano col suo modo di apparire, creando distorsioni e crepe nello specchio della realtà.
Instagram non è più quello che era una volta, e forse il social networking nel suo complesso non è più quello di un tempo. Ce lo ricorda Andrea condividendo John Oliver:
“Facebook’s global expansion has been linked to political turmoil overseas, so maybe their ads should focus less on how they “connect the world” and more on why connecting people isn’t always the best idea.”
E sempre Andrea qualche settimana fa mi ha ricordato in maniera leggermente più gradevole di come abbia fatto il mio analista come sia importante l’essenza dell’essere qui, ovvero che non serve a niente essere proiettati altrove, e bisogna mantenere il fulcro di sé stessi, ancoràti al presente. A volte anche partendo dai propri “luoghi” online.
È in questa sagra dell’apparire innestata nella decadenza della civiltà dell’informazione che è da contestualizzare l’addio di Systrom e Krieger. E forse è ora di tornare a creare i nostri spazi piuttosto che aderire ad un sistema economico che arricchisce inabili ai danni dei contenuti di qualità.
Anche se ormai a qualche settimana di distanza dalle nostre ferie, Agnese ha deciso di raccontare il viaggio che abbiamo fatto nelle Marche, regione nella quale ci sono parecchi amici che non voglio mai, e dico mai, perdere di vista.
Adoro la sua scrittura, ma mi piace riportare in particolare un passaggio su Macerata:
Il secondo giorno Dio creò la seconda colazione e vide che era cosa buona e giusta. Soprattutto buona. Fatta una prima colazione in albergo per dovere di cronaca, incontriamo gli amici di Alessio da Maga Cacao, una cioccolateria che ha una selezione di caffè talmente ampia che quando ho scelto, ero invecchiata di un anno. Golosa è dire poco. Trascorriamo la mattinata tra chiacchiere che scorrono facilmente e fette di torta ad accompagnare. Ci salutiamo dicendoci che ci vedremo ancora, quantomeno per assaggiare il cinghiale che fa la mamma di uno di loro. Ce ne andiamo con il sorriso che ti lascia il calore di persone belle.
Che poi non è nient’altro che la verità. La più pura delle verità.
Cosa mi hanno lasciato le Marche? Sicuramente voglia di olive ascolane, che non sono mai abbastanza. Qualche chilo in più generosamente segnato dall’impietosa lancetta della bilancia. Sorrisi. Lacrime di gioia.
E poi regà, i vincisgrassi.
02 Sep 2018
Oggi è il compleanno del blog di Andrea. Andrea è uno fico, uno che seguo stabilmente e che seguo da un sacco di tempo. Ad aiutarmi a farlo, oltre il feed RSS, anche un bellissimo canale Telegram dove condivide post e sporadicamente qualche piccola riflessione. Andrea lo trovo fico (sì, ancora) perché non si arrende, e perché attraverso il suo approccio al web fa spesso riflettere anche me, che non ho smesso di tenere un blog in più di dieci anni, e che considero Grab The Blaster una tra le cose più importanti che ho attraverso le sue molteplici incarnazioni e le miriadi di stili di scrittura che contiene.
Non ci pensavo, ma questo angolo di web che continua a raccogliere le mie nerdesche memorie ha compiuto undici anni qualche mese fa. Oltre a stappare le bollicine, trovo molto vicino quello che ha scritto Andrea, soprattutto perché alcune volte mi sono divertito, durante questi anni, a guardarmi indietro e notare come il mio scrivere si sia modificato, insieme agli argomenti che trattavo. Dalle riflessioni di ordine personale, ai giochi per PlayStation, a Linux, al web, alla programmazione. Alla programmazione funzionale.
Ma soprattutto dal quindicenne che ero, con i punti esclamativi e le virgole messi in un certo modo, all’adulto che sono, con tutto quello che ne deriva. Guardare indietro su questo blog è come guardare un intimo album di foto che in fondo è la più fedele rappresentazione di me che esiste. E non esiste social che tenga, non esiste foto di copertina o foto del profilo che possa compensare quello che è capace di scrivere una persona, nel bene o nel male, ma soprattutto senza limitazioni dovute ai caratteri e alle logiche insite nella piattaforma.
Guardiamoci intorno. Avevamo una cosa meravigliosa, una piazza aperta e decentralizzata dove ognuno poteva essere il nuovo Martin Lutero e affiggere le sue novantacinque tesi. Abbiamo finito per trasformare anche questo sogno in qualcosa di centralizzato, dove l’Occhio di Sauron può vedere tutto e se gli sfuggi sei tu che ci perdi in visibilità. Ma visibilità di cosa poi? Dei contenuti che lui, grazie a quello che noi scienziati chiamiamo “machine learning”, ovvero una sconfinata distesa di esempi di “questo va bene - questo va male”, vuole proporci.
È per questo che mi ritrovo particolarmente nelle parole di Andrea:
Per me è il ricordo di non abbandonare me stesso a luoghi altri dove il mio contenuto si perderebbe in rigagnoli fatti di algoritmi e logiche di business avulse ad esso.
Altrove, io mi perdo. Qui è uno dei pochi posti dove ritrovo me stesso, digitalmente e materialmente parlando. Ed è per questo motivo che non credo che abbandonerò mai il mio blog.
Ho cominciato a postare in maniera più consistente su Instagram. Lo trovo carino, mi permette di associare ad un’immagine in formato 1:1 (tipo Polaroid) un piccolo post-it con dei pensieri volatili. È però qualcosa che considero di seconda categoria, non perché non siano contenuti di qualità, ma perché nel momento in cui tappo il pulsante “Pubblica”, quelle foto e quei pensieri vanno a finire sul server di qualcun altro. Qualcun altro che un giorno chiuderà baracca e burattini, e andrà tutto perso. Qualcun altro che nasconde ciò che penso e ciò che vedo per privilegiare post sponsorizzati di utenti con i follower spesso e volentieri comprati. Un regno dove le metriche, volentieri alterate, hanno la meglio sulla qualità. Un regno dove malvolentieri ti metti il cuore in pace sul fatto che se fai qualcosa di strabiliante non verrai notato da nessuno.
Certo, in realtà nemmeno il blog rappresenta più questo. Sono sicuramente finiti i tempi in cui se avevi un blog rischiavi di venire letto da milioni di persone. Sono ormai questi i tempi in cui pubblicherò questo post, poi lo condividerò su Facebook, e forse riceverò come è normale che sia più commenti lì che qui. Ma non mi disturba: l’importante è che il mio blog sia il fulcro di tutto questo. E che permanga.
Il New York Times mi affascina sempre tantissimo, data l’avanguardia che propone nei processi di progettazione del software e nel design. In questo articolo, come hanno progettato la nuova home page trattando anche i feedback dei lettori.
04 Aug 2018

Qualche giorno fa mi ha colpito una cosa che ho visto passarmi sotto gli occhi: si tratta delle nuove icone che il team di design di Firefox (ovviamente di Mozilla) sta pensando per le nuove versioni. Avevamo avuto un redesign anche per il recente aggiornamento dell’interfaccia, ma è stato solo un piccolo ridare forma all’icona del volpone che tutti amiamo, mentre con questo aggiornamento abbiamo qualcosa di più corposo.
Viene definito a monte infatti il Firefox brand, ovvero una intera famiglia di prodotti di cui alcuni esemplari già visibili a noi mortali come Firefox Focus, il browser dedicato alla privacy. In base ai due design system proposti e in base al logo che rappresenta il brand principale, poi tutto il resto viene di conseguenza.

Come sempre la procedura non può essere influenzata dall’esterno, ma dato che Mozilla ha adottato una strategia di open design già da prima di Quantum, chiunque di noi può vederne ogni passo anche solo per trasparenza e per (in)formazione. Chissà come andrà a finire e che icone avremo sui nostri desktop tra qualche mese.
Intanto un paio di note a margine:
- Adoro sia la masterbrand icon del System 1 che quella del System 2;
- Le icone per i browser del System 1 sono più giocose e meno formali, le seconde sicuramente più professionali;
- Forse per il resto il System 2 mi convince di più.
E voi? Eh? Oh.