Le cose che faccio
Sono stato tirato in ballo da Marco durante uno dei suoi ultimi scritti perché mi ha fatto fare (con mio sommo piacere) da beta reader, e durante la lettura gli ho attaccato una pippa così possente che ha deciso di taggarmi direttamente.
Vado quindi con questa mia (lol) a rispondere a un paio di punti che mi hanno davvero stuzzicato, specialmente riguardo il perché facciamo quello che facciamo, anche perché mi ha particolarmente colpito l’atteggiamente a tratti simile a tratti profondamente diverso con cui ci approcciamo a determinate gesta, soprattutto tecnologiche.
Un punto riguarda i side project. Quello che mi è sempre capitato di pensare soprattutto dopo un certo punto è che è vero che i side project sono qualcosa che nella maggior parte dei casi va a morire, ma soprattutto quando vengono integrati in una prospettiva e in un ecosistema più ampi è molto più difficile che diventino solo un rinnovo automatico sulla carta di credito. Per questo motivo dopo parecchi progetti condotti in questo modo ho deciso in realtà di sfruttare il mio tempo libero in un modo che almeno a me fa divertire di più: progetti relativamente grandi, open source, possibilmente con una bella prospettiva di adozione futura o con una grossissima storia che ne possa assicurare quantomeno la sopravvivenza “nell’etere” (ovvero nell’Internet, in qualche modo1).
Questo perché spero che dopo la mia morte, al posto di un’impronta effimera, il mio nome possa sopravvivere almeno in una manciata di commit di git sparsi in giro, oltre che in una serie di git blame per cui io possa venire maledetto oltre che ricordato. Ovviamente, più è grosso il progetto e meglio è. Addirittura l’anno prossimo vorrei mandare un paio di patch al kernel di Linux, ovviamente per aggiustare un paio di cose storte ma soprattutto per “personal heritage”.
Lo so, è un motivo piuttosto stupido, ma a me piace. C’è chi scolpisce le statue, chi coltiva un orto, io faccio i git commit.
L’altro punto riguarda proprio l’approccio al lavoro, che nel caso di Marco è più sano, nel mio caso invece conduce al burnout più totale :-D
Nello specifico, a me piace molto quello che faccio e ancora più nello specifico il fatto che una parte del mio lavoro vada a impattare su (appunto) dei progetti open source (ancora). Sicuramente capiterà che io debba lavorare in maniera diversa proprio perché nulla è eterno, e quel giorno probabilmente mi approccerò al mestiere in una maniera meno appassionata. Mi è già successo e sono sicuro che risuccederà. Ad oggi però vale quanto sopra.
Queste cose mi fanno andare avanti nonostante l’industria ormai sia il nonsense più totale. Nonostante il nostro sia ormai un white collar job fatto e finito, sapere di contribuire giorno dopo giorno a qualcosa che uso e che in minimissima parte non è utile solo a ingrassare qualche fondo d’investimento mi risolleva il morale almeno un po’.
“E questo spesso basta.” [cit.]
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Di solito il mezzo di sopravvivenza di progetti simili è un ente come Apache Foundation. ↩